martedì 30 ottobre 2012

M.Butterfly (D.Cronenberg,1993)

Il diavolo bianco imperialista, una presunta superiorità nei confronti di una cultura che sentiamo lontana e ancor più "distante". Il tema del film di Cronenberg è questo e non solo questo. Affronterà soprattutto l'amore assoluto che può catturare un uomo fino a farlo sublimare dalla sua stesa essenza di uomo, la dedizione verso la perfezione di un rapporto con un altro essere umano, l'idealizzare l'altro tanto da diventarlo. La trama: Un magnifico Iron è un contabile dell'ambasciata francese nella Cina dei primi anni 60, poco prima e durante la Grande rivoluzione culturale. Vive con le sue insicurezze una vita tutto sommato monotona e piatta. Distanti culturalmente da quel paese e convinti di poterne gestire l'avvenire politico sono tutti i suoi occidentalissimi colleghi e lui pare seguirne, senza troppa convinzione, le stesse idee. Durante una rappresentazione teatrale, la Madama Butterfly, conosce una cantante lirica...una donna dal fascino misterioso, che parla direttamente ai suoi sensi e lo stordisce con i suoi modi leggeri e parole sussurrate e pensieri antichi. Diventerà la sua ossessione, vivrà per vederla e toccarla o meglio sfiorarla appena, tanto quanto basterà a sfamare quella possessione dei sensi che ormai lo pervade. Tanto idillio si scontra con il vero intento e missione della donna...carpire informazioni per lo spionaggio cinese. Renè (Iron) tornerà in Francia per il cattivo lavoro svolto nell'ambasciata e dopo alcuni anni rivedrà la sua Butterfly a Parigi. La donna lo aveva da tempo convinto di aver avuto un figlio da lui. Ma il destino del nostro Renè è un processo per alto tradimento e sconvolgenti (forse) scoperte sulla sua amata Butterfly. Cronenberg sembra abbandonare, per un film quasi classico, le sue visionarie scene alla Videodrome. Apparentemente cuce un racconto (incredibilmente tratto da una storia vera) dove non viene richiesto quel solito sforzo mentale e fisico che accompagna i suoi famigerati lavori...ma non mancherà di lasciare segni e firme del suo genio. L'ambiguità è il sottotitolo di ogni scena del film...ambigua è la donna, ambigua la sua cultura. Questo inizialmente attirerà quel "diavolo bianco", l'attrazione verso l'esotico è vecchia storia...ma poi, passo dopo passo l'ambiguità si confonderà con la falsità. Il creduto diventerà inganno, l'evidente un miraggio. La stessa ipocrisia imperialista che risulta nella malcelata accettazione dell'altro, esemplificata dalle mura di un'ambasciata straniera spesso intesa solo fortino a difesa di diversità, diventerà ostacolo insormontabile quando il finale e il vero saranno nudi davanti agli occhi del protagonista...lui vuole che il suo mondo rimanga il mondo pensato e sperato, è salito ormai a vedere il più bello degli amori possibili e non riesce a volgere verso il basso lo sguardo e tantomeno a tornare indietro. La soluzione è il sacrificio, è Isacco immolato per un amore più grande...come fosse la morte quel varco da passare per non rimanere solamente e semplicemente uomini.

lunedì 29 ottobre 2012

Begotten (E. Elias Merhige,1991)


Chi si appresta alla visione di un film ha, quasi sempre, letto accenni di trama o quantomeno si è informato sul regista e sul genere. Dovessimo fare questo per il film in questione (Begotten) sapremo che il regista è Merhige che ha girato "L'ombra del vampiro" (con poco piacere di appassionati del Conte e di Murnau) ma bisognerebbe poi faticare per conoscere e ancor più per comprendere la trama di questo suo lavoro…strano lavoro. Partiamo addirittura dalla difficoltà di definire Begotten un film…se così chiamiamo un opera con immagini in movimento e una trama coerente da poterla raccontare e recensire. Begotten, se questa è la vostra idea di un film, non è un film. L'amore (lo stesso di chi scrive) dimostrato da Merhige per l'espressionismo tedesco degli anni '20 lo ha aiutato a dare a questa sua controversa opera un'impronta precisa che si richiama a quei meravigliosi film. Ogni singolo frame è lavorato in post-produzione e fatto diventare simile a quei fotogrammi che hanno reso eterne opere come "Il Dottor Mabuse" o "Il gabinetto del dottor Caligari" o lo stesso "Nosferatu". Non c'è traccia di parlato e quel che accompagna le immagini risulta essere ora vento, ora sinistri cigolii o grugniti animaleschi o un ipnotico frinire. E se questo vi è sembrato strano..sentirete ora la trama. Trama (?!), meglio sarebbe dire sequenza di immagini, di quadri apparentemente slegati tra loro…oscuri, drammatici e decisamente poco digeribili. La trama: Nei primi minuti del film vedremo un personaggio con una maschera spaventosa torcersi dal dolore e che si ucciderà con il rasoio che tiene stretto nella sua mano destra. Dal sangue e dal corpo di questa creatura nascerà una donna che prenderà il seme del cadavere e ne rimarrà incinta. (sentito mai qualcosa di più strano?) Questa donna e il suo malato figlio verranno trucidati da un gruppo di incappucciati che li lacererà nelle carni e li farà morire nel dolore più grande. Vi chiederete ora: Cosa diavolo vorrà mai dire tutto questo? E se mai ci fosse una logica, perché forzarsi a vedere tanta assurdità di film? Una logica esiste e ci verrà data delle didascalie finali che chiariranno i ruoli e il susseguirsi delle scene. Capiremo di aver visto Dio, la lotta dell'uomo con la religione e ci stupiremo che la volontà vera del regista fosse darci una sua particolarissima e non poco blasfema visione della Genesi. Non un film,quindi, da godersi con uno stato d'animo sereno e leggero, ma un'esperienza visiva disturbante e a tratti terrificante. Ha la stessa drammaticità di un incubo ripetuto, la stessa attrazione del guardare il fondo di un pozzo profondissimo. Interpretiamo quelle sporchissime immagini come per dar senso a delle ombre informi…tanto da dar loro le sembianze dei nostri stessi incubi e delle nostre personali paure. Film di difficilissima e pericolosa gestione…contorce le idee e ancor più l'intestino. L'arte a volte, e questo è il caso, è sporca e dolorosa, ma se si avrà la forza di terminare la visione sarà una di quelle esperienze che aiuteranno a portare la pietra di confine della nostra consapevolezza un metro più avanti.

venerdì 26 ottobre 2012

Pagine dal libro di Satana (C.T.Dreyer,1920)

Dreyer era odiato da tutti sul set...non ammetteva repliche e niente meno della perfezione. Il cinema era una missione sacra. La sua Giovanna D'Arco non poteva essere che il miglior film sull'argomento e cosi gli altri suoi lavori. Quest'atteggiamento lo tenne ai margini di un mondo dorato di premi e red carpet che, a dire il vero, non sentiva comunque appartenergli. Ma la fama eterna e gli allori non possono prescindere dalla notorietà, e rimase, per sua scelta, un regista per pochissimi. Questo relativo successo arrivò alla fine dei '20. Prima nulla o quasi nulla si sapeva di Dreyer, prima della sua "Giovanna". Pagine dal libro di satana è uno di quei film/esperimento dove il giovane regista danese, con tutto il suo bagaglio di insegnamenti luterani, si confrontò con la fede e qui in particolare con il male e satana in "persona". La trama: Satana, maledetto da dio, è condannato con sembianze da uomo ad indurre l'umanità al peccato. Dio allungherà la pena al suo "angelo prediletto" se gli uomini non resisteranno alle sue tentazioni, al contrario verrà diminuita per ogni uomo capace di resistergli. Il primo dei quattro episodi in cui è diviso il film (uno per ogni epoca dove satana compirà il suo malvagio intento) è ambientato nei giorni immediatamente precedenti la crocefissione di Cristo. Satana vestito da fariseo aizzerà i sacerdoti a condannare il cristo. Meriterebbe pagine di recensione la sola figura di Giuda, perfetta nello sguardo e capace di trasmetterci immediatamente i pensieri e le convinzioni del regista. Nel secondo atto ci ritroviamo nel XVII secolo, dove la crudele inquisizione spagnola era potentissima e dolore e tortura erano quotidianità. Il nobile Don Gomez era uno studioso di astronomia e sua figlia Isabella di matematica e storia con il monaco Don Fernandez. La ragazza è da tempo nei pensieri del dotto monaco. Questa volta gli occhi di satana li ritroveremo nel Grande Inquisitore che spinge il monaco ad entrare a far parte della stessa Inquisizione, vantandone l'onnipotenza. Il frate accetterà accecato dalla gelosia per il Conte Manuel, amato dalla ragazza. L'infedele servo di Don Gomez lo denuncia per eresia e sarà compito di Don Fernandez arrestare e quindi far giustiziare lui e  sua figlia. Il male ha vinto di nuovo. Terzo atto, Parigi 1793. Sta per essere ghigliottinata la regina Maria Antonietta. Il conte di Chambord, come molti atri, seguirà la stessa sorte del re e della regina, giustiziato sul posto. Satana questa volta è nei panni di un ex servitore del conte, ora rivoluzionario giacobino. Si accorge della fuga della moglie e della figlia del conte con la complicità di un loro domestico, questi verrà indotto dal diavolo ad unirsi a loro giacobini e a pretendere con il ricatto la giovane figlia del conte come sua sposa. Le tradirà vigliaccamente quando verranno condotte davanti al tribunale del popolo...e Satana avrà ancora dimostrato il suo potere sull'uomo. Quarto ed ultimo atto, Finlandia 1918. Gli ideali dei rivoluzionari russi varcano il confine e nel piccolo paese di Hirola si svolge un dramma familiare. Una giovane donna (Siri) e suo marito devono subire il ricatto di un parente innamorato della ragazza. Minaccia di denunciare l'uomo, che aiuta i "bianchi", ai filo-russi. In Finlandia è piena guerra civile e Satana, con le sembianze di un monaco filo-russo (molto somigliante a Rasputin) vuole costringere Siri, ora telegrafista per i "Bianchi" a mandare loro un messaggio che li attirerà in una imboscata, se non lo farà sarà la sua famiglia a subirne le conseguenze. Siri si rifiuta e muore per difendere ideali e patria. Satana, secondo i patti, dovrebbe ora vedere ridotta la sua pena...ma il male non può non essere dove ci sono gli uomini. Trama complessa e film difficile da seguire. E' un perfetto esempio di come dovrebbero essere costruite le scene, le inquadrature e i personaggi. Dreyer è fortemente influenzato dalla sua religiosità e dalle sue idee conservatrici, sembra quasi voler girare un inconsapevole film di regime e alcune scelte, una per tutti il suo dipingere eroica la figura di Maria Antonietta, risultano a tratti fastidiose. Ma, tolto questo, non possiamo non rimanere stupefatti da come nel 1920 un quasi autodidatta cineasta sia riuscito a creare tanto perfetto cinema. Vuole e ottiene epici i suoi fotogrammi e i volti dei suoi attori. I film che seguiranno nella filmografia del regista danese sono di gran lunga migliori di questo...ma in quei primi anni 20, per la sua modernità e perfezione, Pagine dal libro di Satana deve esser sembrato a tutti un'opera partorita dallo stesso demonio protagonista del film.

giovedì 25 ottobre 2012

I guerrieri della notte (W.Hill,1979)


Come dicono le didascalie dei primi quadri del film…"Un giorno nel futuro…" Sono infatti gli anni 70 ma è anche un futuro prossimo e possibile. Un futuro di bande, di capi e di lotte. La trama: Gli Orphans, i Baseball Furies, I Warriors e cento altre ancora…tutte le gang di New York si riuniscono in quella che è da tutti considerata la pacifica fine delle ostilità, e questo per la presenza di un carismatico e stimato capo della più potente di quelle bande...il suo nome è Cyrus. Le sue intenzioni sono chiare, loro sono uniti 60000 e la città può contare al massimo 20000 elmetti (polizia), la città deve diventare loro, uniti e fortissimi. Incolpa il potere costituito di averli divisi per renderli deboli, di spingerli a combattersi per lasciare le mani libere per rubare legalmente e abusare del potere a ipocriti e corrotti politici. Durante la riunione Cyrus viene ucciso e accusato ingiustamente è un membro dei Warriors…Inizierà una caccia all'uomo memorabile e quasi insuperata nella storia del cinema americano. Il campo di battaglia sarà la sconfinata metro di NY…il ritorno verso la loro Coney Island sarà per i Warriors un lottare per la vita. Tappa dopo tappa il viaggio della salvezza diventa sempre più pericoloso. La calda e sensuale voce di Dolly alla radio scandisce il progredire dei fatti e suona meravigliosa musica anni '70. I ragazzi si divideranno e il loro futuro diventa incerto…e forse molto breve. Hill girà un film famoso e bello quanto Arancia Meccanica e Easy Rider, meno individualista ma colmo di una voglia di libertà forse non palese come due motociclisti verso l'orizzonte ma quei cuccioli della società in quella giungla di asfalto non saranno da meno di Fonda e Hopper. Tutto il film si svolge in poche ore, una notte di violenza prima di quell'alba a Coney Island. Personaggi principali si alternano a non meno riusciti "non protagonisti". Colonna sonora tra le migliori e senso della tensione perfetto. I guerrieri della notte è quasi una summa di generi, il western di Ford, gli zombie di Romero e un musical metropolitano alla Grease. Ovviamente il film venne accusato al tempo di istigare alla violenza, e non mi stupirei di sentirne ancora oggi, dopo più di 30anni, parlare nello stesso modo. Rimane invece un classico da rivedere, lasciandosi sempre meravigliare da quella ingenua ma schietta forza espressiva che lo caratterizza.

mercoledì 24 ottobre 2012

Tesis (A.Amenabar,1996)


Ancora un'opera prima, la prima di un regista che negli anni a seguire ci donerà film come The Others e Mare Dentro…Alejandro Amenabar. Tesis è un thriller di notevole bellezza, sicuramente acerbo (Amenabar aveva 24anni al tempo) e non privo di alcune banalità e lungaggini. Paradossale per un cineasta che ama horror classici come il nostro regista cileno l'argomento che affronta in questo suo film. Si interroga, questo è anche il tema della tesi di laurea di Ana la protagonista, di quanto sia lecito mostrare la violenza nei media e nel cinema in particolare (nel finale capiremo anche l'opinione del regista sull'argomento). Non parliamo della violenza artefatta e sceneggiata, ma quella che accade, quella procurata ad un altro individuo, quella degli "snuff movie"…ovvero video che filmano quella stessa violenza, vera, reale, fatta di torture e omicidi, senza filtro alcuno. La trama: Ana è una studentessa alla facoltà di cinema nell'Università di Madrid. Per terminare i suoi studi deve produrre una tesi sulla violenza nei mass-media e nei film. Si avvicina con coraggio all'argomento e chiede al suo relatore di aiutarla nella ricerca dei girati più estremi. Chiede aiuto anche ad un ragazzo che come lei frequenta quella facoltà e ha fama di appassionato e divoratore di pellicole snuff. Chema, questo il nome dello studente, è effettivamente un'autorità nel campo e accetta di aiutare Ana. Il professore a cui la studentessa si era rivolta vuole procurarsi quei filmati chiesti dalla ragazza e li cerca in una sezione della videoteca universitaria che è chiaramente "dedicata" a pochi…anzi quasi nascosta per non essere trovata da nessuno. Trova quel che cerca e ne visiona il contenuto….è tanto estremo, tanto raccapricciante da stroncarlo sulla poltrona della saletta con un infarto fulminante. Ana lo trova li morto e recupera, capendone l'importanza, quella videocassetta "letale". La vedrà con Chema e si renderanno conto che la donna torturata e uccisa nel film era una loro collega…inizieranno cosi le indagini, crescerà la tensione e le iniziali sicurezze e amicizie verranno più volte messe in discussione. (non aggiungo altro…trattandosi di un thriller). Tutta la suspense che Amenabar riesce ad ottenere sa fare a meno di crudi e splatterissime scene di violenza. Ci parla dell'argomento e quasi ci sfida a tenerci incollati alla poltrona pur non vedendo mai o quasi mai una goccia di sangue. E' un film di Hitchcock poi riletto da Lynch e tolto dalle mani di Tsukamoto appena prima dei suoi eccessi. Troppo facile lo splatter per lui (il regista), troppo banale il mostro deforme che spaventa, qui ci troviamo di fronte all'esercizio di stile di un giovane regista che si faceva le ossa con questo primo lungometraggio e dopo un solo anno saprà già girare "Apri gli occhi" per poi consacrarsi con il suo The Others. Anche Tesis ci dimostra, ancora una volta, quanto sia fondamentale per apprezzare o avere conferma di un talento vero vederlo impegnato nei suoi primissimi lavori, vedere il prodotto di pochi fondi e tanta voglia di fare.

martedì 23 ottobre 2012

La pecora nera (A.Celestini,2010)


Celestini regista. Il bravo Celestini scende dal palco e porta il suo teatro sul set di un film poetico/antipoetico. Pecca in ritmo e non trova sempre la migliore costruzione di una scena…non possiamo dire che abbia tecnica e occhio da cineasta maturo ma è maestro nello scovare il romantico nello squallore e nel bello, è lirico nel raccontare. Il suo Nicola, protagonista del film, è lo spioncino che useremo per guardare in una storia, una di quelle nascoste, che non hanno motivo di essere dette ma che corrono parallele a quelle di tutti, che vivono nonostante l'oblio, che hanno ore e giorni lunghi o brevissimi tanto quanto i nostri, ma silenziosi e monotoni. Nicola vive di particolari come se tutti quei singoli fondamentali momenti potessero marchiare a fuoco la sua esistenza. Una filastrocca, le uova della nonna, gli occhi della sua amata compagna di classe. Quella nonna che è il suo mondo di bambino, è tutte le nonne del mondo, hanno saggezza di vita e poche speranze…o forse non le hanno avute mai. La trama: Nicola vive con la nonna in una baracca di estrema periferia ed è nato in quei "meravigliosi" anni 60. Vivono di galline, uova e pochissimo altro. Passa i suoi giorni a sopravvivere alla scuola, a suo padre, ai suoi fratelli e ad entrare e uscire da un manicomio che custodisce come una bara sua madre alienata dal mondo. Respira manicomio e matti e suore e dottori e non i polverosi e festosi campetti di una parrocchia. Impara a scrutare lo sguardo vuoto di un "povero matto", come li chiama la suora/custode, e a capirne le meccaniche esigenze di affetto o il nulla e basta. Dovrà abbandonare la scuola e il suo futuro sarà quell'istituto, sarà la spesa con la suora e i ritmi scanditi dalle urla e dai passi di quelle figure lente, lungo il solito orizzonte di un corridoio. In quell'istituto diventerà grande…è un mondo fatto di maioliche celesti e termosifoni soffocanti. Nessuna pietà tra le righe del racconto di Celestini, niente nascosto niente evidenziato. Nessuna commozione strappata con l'inganno, solo la cattiveria e l'inadeguatezza del "fuori di là" e di grandi e bambini nei confronti di quei "santi" del manicomio…condominio di santi, martiri inconsapevoli. Mille vite, mille teste, più vere delle vere…vite mediocri, tanto quanto  le altre, quelle oltre le mura di quel manicomio, solo più oneste. Di pregio l'interpretazione di Tirabassi (personaggio con sorpresa) e Celestini, raro e unico cantastorie rimasto. Tanto da riflettere dopo la visione...

lunedì 22 ottobre 2012

Lorna (R.Meyer,1964)


Le Grindhouse erano particolari sale cinematografiche dove venivano proiettati film detti d'exploitation…Si tratta di pellicole che volevano attirare spettatori "affezionati" a particolari generi (western, biker, zombi…) e dando loro un prodotto strettamente legato a quei temi senza o quasi velleità di "opera d'arte". Tra questi vi stupirete che inizialmente furono annoverati Il selvaggio con Brando o L'ultima casa a sinistra di Craven, ora riconosciuti cult-movie, ma inizialmente snobbati come film per soli frequentatori di grinhouse. I "film di genere", come sarebbe più opportuno chiamarli, godono da qualche tempo di una inaspettata riscoperta. L'onnipresente e iperdichiarante Tarantino ha più e più volte affermato la sua "fede" per questi lavori…ne trae ispirazione (diciamo così).  Ovviamente tra questi sottogeneri non poteva mancare quello che si dedicherà ad uno degli istinti primari, di uomini in quanto tali e di spettatori, il "sexploitation". Come dice il nome parliamo di film che promettevano la visione di scene softcore, senza esplicite scene di sesso ma tanto quanto bastava ad "interessare" chi guardava. La nostrana commedia sexy all'italiana è abbastanza vicino a quanto descritto prima, ma in America ha trovato un regista di culto che è riuscito ad avvicinare le sue opere tanto quanto al Pierino di Vitali quanto ai film di Pasolini (per alcuni avrò bestemmiato, lo capisco). Parliamo di Russ Meyer, controverso cineasta statunitense che si dedicò a questo genere di film, farcendoli anche e sopratutto di pesanti critiche alla moralista e ipocrita società americana…senza dimenticare la leggerezza che doveva ai suoi lavori e ai suoi spettatori ma non facendo mai mancare, a volte esplicite a volte più sottotono, stilettate al sistema. Parleremo, ad esempio per tutti questi lavori, del suo "Lorna". Film che aveva dato una svolta a quei suoi primi lavori solo divertimento e grandi seni, da questo in poi anche la violenza entrerà a far parte dei suoi film. Lo ambientata in quel sud degli stati uniti che nei primi sessanta puzzava ancora di razzismo e di un ridicolo machismo. La trama: Lorna, una bella e prorompente (i grandi seni furono quasi una firma nei film di Meyer) ragazza di campagna è sposata con Jim, lo ama e viene amata moltissimo ma il suo corpo vuole attenzione e Jim di questo non è capace. Un evaso incontra Lorna nel bosco e dopo aver abusato di lei invece di essere denunciato verrà portato dalla donna nella sua casa sul fiume, quel giorno Jim tornerà prima da lavoro e…..Come leggete la trama è quanto di più banale e già visto possa esistere, ma la bravura (per alcuni è questo) di Meyer sta nell'inoculare quei fotogrammi anche di un fortissimo realismo. La violenza sulla donna, la violenza vigliacca dell'uomo e quel perbenismo accusatore che imbriglia i corpi come le idee sono, per chi vuole vederli, evidentissimi e ben sviluppati. Il predicatore che introduce il film, i due balordi colleghi di Jim che vivono la loro vita mediocre usando la violenza non avendo altri argomenti, sono perfetti e veri stereotipi di quella gretta e ignorante società che Meyer odia e accusa. Ovvio, i seni di Lorna (interpretata da quella Lorna Maitland pensiero fisso di ogni adolescente americano di allora) e il suo bagno nel fiume sono quanto ormai si ricorda del film, come potrebbe essere diversamente, e di questo Meyer è cosciente e lo usa come cavallo di troia per dirci anche quel che pensa del suo paese e dei suoi compatrioti. Osare un parallelismo con Il Decameron di Pasolini sembrerà azzardato ma non impossibile. Meyer non è PPP ma, lo dico, lo eguaglia nel modellare quei personaggi tanto pop e nulla deve invidiargli del realismo di Accattone o delle metaforiche scene di Salò, le 120 giornate di Sodoma.


sabato 20 ottobre 2012

Tabù (F.W.Murnau,1931)

Quando al funerale di Murnau Fritz Lang prese la parola per parlare del suo collega e amico pronunciò parole commosse di ricordo e molte di accusa (le stesse che Murnau usò in vita) verso quello che già sembrava allora il destino della cinematografia moderna...il profitto ad ogni costo. Moriva con Murnau un caposaldo della "settima arte", che girava film per costruire capolavori e nulla mai meno di questo. Metteva lo stesso impegno in un campo largo per un paesaggio che nella scena madre di ogni film. Simboliche e originali le storie, perfette e iconiche le inquadrature. Ebbe collaboratori eccellenti, personaggi come C.Mayer per le sceneggiature o un vincitore di Oscar come Crosby a "fotografare" le sue opere. Tanto genio rischiò l'oblio per le invidie (come non esserlo per tanta grandezza?) di colleghi e produttori, i quali fecero pesare scelte private e sessuali di Murnau come la peste da allontanare. Tanto rancore e desiderio di libertà sfociò in quest'ultima sua opera zeppa di invettive verso il proconcetto e l'ignoranza...dove (ahime') non potremo far a meno di riscontrare anche quella consapevolezza di aver perso quella lotta, di essere un debole singolo individuo contro un mostro chiamato "ottusità". Vorrà per il suo film un luogo incontaminato, dove meno che in altri l'uomo avesse fatto già danni. La Polinesia e il suo oceano in quel finire degli anni 20 era un lontanissimo e idilliaco luogo...natura e corpi, uniti a mostrare la loro perfezione. La trama: La bellissima Reri vive nel paradiso di Bora Bora con il suo Matahi. Fanno da contorno a quell'amore spiagge da sogno e tutto quello che la natura dona senza pretendere. Matahi è forte, un guerriero, e nulla sembra poterlo allontanare dalle braccia della sua amata. Il fato e la comunità, con le sue leggi ancestrali, distruggeranno quel sogno. La morte di una sacerdotessa segnerà, per volere del sacerdote del villaggio, il passaggio di Reri dall'essere una giovane donna a un simulacro inviolabile del dio. Il ragazzo non accetta questa decisione e rapita l'amata fuggirà con lei in un'isola vicina e apparentemente più "libera", dove europei ed asiatici colonizzatori vivono adorando un dio diverso dal loro...il denaro. Quel posto sembra ignorarli e tanto basta ai due per sperare...ma le regole, le leggi e chi le rappresenta li ritroveranno, non vogliono quell'amore e non sarà, non può esserlo mai, un lieto fine. Far partecipare lo spettatore non solo passivamente alla visione di un film, farlo sentire immerso in quelle acque e scaldato da quel sole non è una cosa facile da ottenere. Ci vuole arte vera per tanto risultato. Non è con il nome famoso da cartellone che Murnau otterrà successo (tutti i protagonisti sono presi tra la popolazione di quelle stesse isole), non con mirabolanti inseguimenti o mostri orrendi, solo tanta maestria e sensibilità. Tabù rimane il testamento più bello di un regista "faro" nel panorama dei cineasti di sempre.

venerdì 19 ottobre 2012

Audition (T.Miike,1999)


L'orrore, strette allo stomaco e il dolore fisico. L'incubo peggiore, la tortura...Miike vuole parlarci di amore e solitudine, userà scene e argomenti che daranno a queste due parole inquietanti sapori. E' regista che ha portato sullo schermo film diversissimi tra loro, una sfida in ogni lavoro…una rincorsa a sconvolgere sempre più se stesso prima del suo pubblico…a cercare di fare quel film alla maniera di Miike, come non lo farebbe nessuno altro mai. Ci ha ferito con il suo Visitor Q, con il meraviglioso Ichi the killer, stupito con la sua visione di Yattaman…insomma, sa fare tutto e tutto indimenticabile. La trama: Il signor Aoyama è vedovo da molti anni, ha vissuto con suo figlio e per dedicarsi a lui e alla sua educazione non ha mai voluto risposarsi. Ora vuole trovare un donna, ancora un amore…magari giovane. Si lascia aiutare da un suo amico produttore che con lo stratagemma di una falsa audizione permetterà a Aoyama di "vagliare" le possibili candidate. Qualcuna potrebbe andare, qualcuna è improbabile…nessuna affascinante, tutte  scartate prima dell'ultima ragazza da provinare…Asami. Seduta educata e ferma, con una asettica camicia bianca che ne enfatizza il pallore e lunghi capelli neri, lo sguardo basso e timoroso e tanto perverso fascino da stravolgere il nostro protagonista. Il curriculum di Asami servirà all'uomo per ricontattarla e organizzare un secondo incontro…cerca un indirizzo (ma è falso), dei recapiti di passati lavori (ma sono inesistenti), troverà un numero telefonico e con quello e con quella telefonata darà inizio al più grande sconvolgimento possibile…Ora lo sguardo, prima basso, di Asami si alza verso la camera, il suo viso inespressivo si deforma con un sorriso agghiacciante. Tutto allora diventerà malvagità e da "scelta" Asami diventerà il giudice e il boia. Disturbare è gioco facile per un tipo come Miike, ma lui arriva a fare di più…da corpo fisico a quelle immagini malate, una siringa e un ago nelle mani della bravissima protagonista sono l'esatta rappresentazione del terrore che si prova anche al solo assistere a  quelle scene. Film difficile da sopportare e certo impossibile da dimenticare. Il maschilismo dei due amici che organizzano quella umiliante audizione è "vendicato" da quella sanguinaria donna, che potrebbe diventare, per quanto risulta riuscito il personaggio, uno di quelli da farne fumetti e libri di successo. Asami è romantica e vuole amore, ma lo vuole totale, eterno ed esclusivo…chi non riesce a darle tutto ciò sarà l'oggetto della sua vendetta, delle sue torture della sue estrema dimostrazione di "affetto"…dolorosissima ultima dimostrazione di affetto.



giovedì 18 ottobre 2012

Le Trou-Il Buco (J.Becker,1960)


Regista Becker che ha lasciato bei film…Grisbì del '53 per tutti, ma nulla rispetto a quanto avrebbe potuto fare ancora (è morto nel 1960 a 53 anni). Sensibilità fuori dal comune e ricercatore di talenti, attori non professionisti e magnifiche facce da cinema. Le Trou/Il buco è il suo ultimissimo lavoro, fatto per l'appunto con poco più che figuranti….ma, signori, che risultato! Opera senza nulla oltre l'indispensabile…si rinuncia anche alla musica sostituendola con i rumori e i silenzi del vivere in un carcere, il carcere della Santè che è il "teatro" del racconto. La direzione di Becker è di altissimo livello, nella prima parte ci descrive i vari personaggi con tanto perfetto alternarsi di primi piani e campi larghi e così ben riusciti da farci sentire seduti accanto ai suoi attori a goderci la loro storia. La trama: Cinque detenuti nella prigione della Santè stanno escogitando la fuga, un piano che li porti fuori da quelle mura. Per la precisione l'idea è di quattro di questi, che dividono la cella da più tempo..il quinto, Gaspard, deve unirsi a loro a seguito dei lavori nella sua cella abituale. Non è facile per i quattro fidarsi del nuovo arrivo, ma così faranno…e porteranno a termine il loro "lavoro", tra colpi di scena, rinunce e tradimenti. Il mutuo appoggio e la forzata solidarietà è la chiave migliore di lettura del film. Sono uomini uniti dal destino, con una loro idea particolare di rispetto ed educazione e spinti dalla voglia di non arrendersi alla loro condizione o forse anche e soprattutto a quella società. Ovviamente la prigione, la costrizione è metafora di vita..di coraggio e vigliaccherie quotidiane compagne di strada di tutti noi. E' un film al maschile (la sola donna è una giovanissima Spaak che compare per pochissimi minuti) di quel filone noir/carcerario che farà proseliti famosi, da L'uomo di alcatraz  a Le ali della libertà, e spesso saranno capolavori. La particolarità del film di Becker è l'altissimo livello di tensione e soffocante claustrofobia che riescono a dare le maniacali e lunghissime inquadrature di oggetti e sguardi, i dialoghi scarni e decisi affidati con maestria e misura a bravissimi interpreti. I protagonisti hanno caratteri ben distinti e diversissimi tra loro, l'ingegnoso Roland che ha già portato a termine ben tre evasioni e tutti si fidano di lui e di quel che dice, il pacioso e scherzoso "monsignore" che conforta e incoraggia, l'arrogante Manu (F.Leroy) che ha modi spiccioli e determinati  che protegge e vendica i suoi compagni di sventura e il neoacquisto Gaspar, mediocre a cui piacerebbe essere come i suoi "duri" colleghi…e che ci riserverà una sorpresa. Il regista ha preteso tanto realismo dai suoi attori da arrivare a chiedere loro un vero sforzo fisico nelle scene che prevedevano la demolizione di pezzi di muratura e pavimenti….per interminabili minuti scaveranno, si sporcheranno e suderanno come mai nessun metodo Stanislaskj potrebbe immaginare. Hanno uno scopo comune ma volontà singole…forse assassini e ladri, ma questo non è volutamente chiaro nel film, quasi a non invogliarci mai ad usare quello come inevitabile e solo pre-giudizio per connotare un detenuto…certo, sembra dirci Becker, sono ai  margini della società ma non peggiori di certi "liberi".

mercoledì 17 ottobre 2012

L'ultimo uomo della terra (Ragona/Salkow,1964)

Nessun rumore per le strade della città (città senza nome ma che capiremo essere una indovinatissima Roma/Eur), auto lasciate ai margini e cadaveri disseminati ovunque. Inizia cosi "L'ultimo uomo della terra", film non conosciuto come meriterebbe e uno di quelli che hanno dovuto aspettare un remake hollywoodiano per essere citati nelle recensioni. Tra questo film, che è del 1964, e il remake (Io sono legenda) ne è stato in verità anche prodotto un altro "Occhi bianchi sul pianeta terra" con C.Heston del '71, ma su quello possiamo soprassedere...è meglio. Torniamo al nostro. La trama: Il dottor Morgan sembra essere l'ultimo uomo sopravvissuto ad una epidemia, che lui scienziato ha inizialmente sottovalutato,  ricredutosi, cercherà di studiare...ottenere magari un vaccino. Ma il novello Crusoe non è solo...la notte porta quei cadaveri a svegliarsi (fatalmente) e a cercare prede da contaminare succhiandone il sangue. Morgan sa che sono il fuoco e il paletto di legno nel cuore le sue uniche armi...deve uccidere tutti i vampiri, rastrellare la città quartiere per quartiere e finirli...bruciarli. Passano cosi le sue, quasi monotone, giornate...poi incontra Ruth, non ancora vampiro ma già contaminata. Cercherà di salvarla, per lei e per dare una speranza a se stesso. Il futuro del mondo dipenderà da questa sua impresa e ancor più da alcuni sconosciuti compagni di strada....Come gli altri due film è liberamente tratto dal romanzo di R.Matheson "I am legend" del '54, ma tra tutti il più riuscito è sicuramente questo. Il merito devono dividerselo la magistrale interpretazione di V.Price (che è effettivamente tutto il film), la collaborazione dello stesso Matheson alla sceneggiatura e una marmorea Roma presa come set per il film. Forse questa una scelta dovuta al budget inesistente (creare scenografie artefatte è costosissimo) o anche perchè trattasi di una coproduzione Italo/Americana, ma il risultato è notevole. Il futuro descritto nel film è un futuro relativo, in fondo rimaniamo sempre nei '60, e questo aumenta il senso di terrore per il pericolo realmente possibile che deve aver preso i pochi spettatori durante la visione. L'aver scelto date e luoghi decisamente ben individuabili è una trovata eccezionale...lo spettatore italiano vedendo quella Roma chiassosa improvvisamente senza suoni e voci sarà sicuramente scivolato sulla poltrona del cinema...preso da angoscia e ansia. Poi la risata scrosciante e liberatoria di Price mentre vede i filmini della sua famiglia (sterminata dalla malattia) avendo l'intera casa circondata dai "non morti" gelerebbe il sangue anche ad un vero zombi romeriano. Il film nasconde anche e soprattutto una violenta critica alla società che in quella metà dei '60 qualcuno immaginava potesse arrivare o tornare...I contaminati/sopravvissuti come Ruth hanno già le loro regole, le loro divise, ma alla base di ogni nuova comunità di "uguali" c'è sempre la stessa crudele decisione....l'eliminazione del diverso. La creazione del mostro da uccidere quale sacrificio al loro sentirsi "massa di pari"...e preferiranno uccidere una speranza che perdere una sicurezza.

martedì 16 ottobre 2012

Bullet Ballet (S.Tsukamoto,1998)


Eppure una speranza, se non un lieto fine, un attimo di positività esiste in tutti i film…in ogni racconto. Questo non ditelo a Tsukamoto, che scrive Bullet Ballet immaginando il suo protagonista (lui stesso è attore nel film) che precipita dalla disperazione delle prime scene verso un profondo, melmoso, scurissimo nulla. L'angosciante solitudine che i vicoli sporchi e umidi e i cunicoli fetidi di Tokyo ci lasciano annusare è poco meno dell'insopportabile. Non servono ore al regista per segnare i sentimenti di chi guarda con un indelebile disagio…siamo le ferite di Goda mentre viene picchiato, gli occhi indolenti di Chisato. La trama: Goda è un pubblicitario, sconvolto dal suicidio della sua compagna…non comprende, non accetta il gesto. Vuole sentire il metallo di quell'arma (una Chief Special), che ha ucciso "lei", sulla sua pelle, vuole sentirne il freddo e vivere quell'istante…e forse finirla così anche lui. Viene truffato, non si arrende…arriverà a costruirsene una, una perfetta arma, un angelo sterminatore. Nella ricerca di quella pistola si imbatterà in gang e guerre di bande, conoscerà personaggi lontanissimi da lui e questo innaturale scontro sarà rumoroso e doloroso. Tokyo non ha paura di lui, Chisato, la giovane punk del gruppo che lo ha quasi ucciso in un agguato, lo sconvolge. Riconosce in lei il vuoto della sua stessa anima…è lucida, senza imperfezioni, è cinica e senza speranze. Troverà anche la Special e ci proverà…ma il suo futuro è inevitabilmente Chisato. Per lei vuole essere spietato, anche proteggerla…ma il nemico non è un uomo, una gang, è il loro male di esistere. Tsukamoto è già avvezzo al bianco e nero, anzi meglio, al bianco e nerissimo…lo aveva già usato in Tetsuo e il buon risultato lo ha convinto a riproporre quei vorticosi montaggi spezzafiato (...la scena dove Chisato sfida la morte danzando a pochi millimetri da una metropolitana in corsa è da antologia). Vuole un film senza storia, vuole un film/trip, che deve riecheggiare nel quotidiano, farci soffermare sullo sguardo di quel nostro vicino, quello assente e strano…forse anche lui in cerca di una Chief Special.

lunedì 15 ottobre 2012

Il coltello nell'acqua (R.Polanski,1962)


Creare tensione è uno dei fondamentali del far cinema. Bisogna dar modo allo spettatore di immaginare nella sua mente tutti i possibili sviluppi che seguiranno le prime scene e sorprenderlo il giusto con inquadrature rivelatrici, facendo riconoscere da sguardi e dialoghi il nervo della storia che si svilupperà di li a poco. Come nel bellissimo "Prigionieri dell'oceano" del baronetto Alfred…il film usa gli spazi stretti di una barca per negare ai personaggi libertà di movimento, costringerli al contatto fisico e farli inevitabilmente scontrare senza possibilità di fuga. La trama: Una coppia percorre una strada secondaria di campagna con la loro bella auto, si imbattono in un giovane autostoppista, decisamente non della loro stessa estrazione sociale, che finirà per essere invitato da Andrzej (Andrea, il marito) a trascorrere insieme le prossime 24 ore sulla loro barca. L'uomo tende a rimarcare la sua condizione agiata e il suo "saper vivere" con il ragazzo. Non perde occasione per dimostrare la sua superiorità e arroganza, ed è forse questo il motivo per cui ha invitato il giovane. Si instaura fra i due competizione per ogni minima cosa, gonfiare un materassino o giocare a shangai…e ovviamente presto succederà anche per il "predominio sulla femmina". Notevole lo sforzo di Polanski nel cesellare il carattere dei vari personaggi, mostrando invidie e ipocrisie senza eccedere nel dramma, rappresentato come certo sarebbero nella realtà. Ottima la location (il lago polacco di Masuria) e alieno ma non sbagliato il sottofondo jazz che accompagna il film. La donna che rimane in secondo piano per quasi l'intero film sarà il perno della svolta improvvisa nel racconto….smaschera i due uomini e le loro ipocrisie. Polanski al suo primo lungometraggio già ci rassicura sul suo gran valore di cineasta.

sabato 13 ottobre 2012

La maschera del demonio (M.Bava, 1960)


Le opere prime sono quasi per definizione lavori imperfetti, ancora pieni di troppe ingenuità o, bene che vada, di un eccessivo slancio creativo che porta l'immaturo regista a strafare in concetti da rappresentare o produrre solo sterili dimostrazioni dell'aver frequentato scuole di cinema. Questo vale per la stragrande maggioranza…non per i "nati bravi" come Mario Bava. Aver respirato "cinema" da bambino grazie al padre Eugenio che si occupò della fotografia di celeberrimi film muti del cinema nazionale (per tutti: Quo Vadis,1912 e Cabiria,1914) ha aiutato il "nostro" ad essere, prima che regista, un costruttore di inquadrature. Immaginava la scena, la "fotografava", la illuminava e non si limitava mai al solo comando "azione". Doveva scolpire il suo film, toccarlo, ancor prima di girare. Dicevamo della sua opera prima…La maschera del demonio, dove Bava è anche direttore della fotografia (che definirei perfetta) e, prima di ogni cosa, inventore di effetti speciali (che per lui potremo dire "effetti geniali") che hanno dato il gusto, a chi vedrà horror da quel momento in poi, di discernere un bel film da un Super8 della domenica. Gli occhi della Steele diventano stereotipi del panico o si trasformano in motivo di ribrezzo (vedi la scena della "reincarnazione" di Asa, che procurò mancamenti nelle educate sale italiane) e la scena iniziale, dove la strega viene uccisa e inchiodata ad un legno con una maschera demoniaca munita di enormi chiodi, che da allora sarà la scena cult per definizione. La trama: Asa, accusata di stregoneria, viene giustiziata, come abbiamo già detto, insieme al suo amante…muore non prima di aver lanciato maledizioni verso i suoi aguzzini, tra i quali il fratello di lei, e la loro discendenza. Secoli dopo due uomini, visitando un vecchio castello, incontreranno quella che nel fisico è l'esatta copia di Asa ma è in realtà una sua pronipote..la strega è sepolta in quel castello e dopo il suo (bellissimo) risveglio sconvolgerà la vita di tutti. Dopo Bava verranno Margheriti e Freda e dopo ancora Argento…ma l'Italia aveva già conosciuto il suo miglior regista di film horror.

venerdì 12 ottobre 2012

Il pozzo e il pendolo (R.Corman, 1961)


Nel panorama affollatissimo dei cineasti americani Corman rappresenta un unicum non rinnovato. Pochi soldi per fare film, tanta inventiva e capacità di anticipare i gusti dello spettatore medio. Ha fatto horror con due lire (o meglio, dollari) e la maggior parte di questi spesi per la "paga" del suo attore protagonista per definizione…Vincent Price. Di questi suoi film i più celebri sono quelli ispirati ai racconti di E. Allan Poe, per tutti basti citare il bellissimo "Sepolto vivo" o il film di cui diremo…"Il pozzo e il pendolo". In verità dal racconto di Poe si discosta notevolmente, prende le migliori scene e la famigerata "macchina della tortura". La trama: Don Nicholas Medina (Price) figlio di un nobile spagnolo del '500 è vedovo e le circostanze della morte della giovane moglie rendono sospettoso il fratello di lei Francis. Nicholas, il cui padre, feroce inquisitore, uccise il fratello per una relazione con sua moglie, impazzisce letteralmente quando viene preso dal pensiero di aver sepolto sua moglie Elizabeth (Steele) ancora viva. Aperta la tomba della donna la troveranno deforme per lo sforzo nel vano tentativo di aprire la bara dopo la sepoltura. Nicholas non regge a questa scoperta e impazzirà, ma le cose non sono come tutto sembra far pensare…bisogna aver paura dei vivi più che dei morti e delle maledizioni. Tutto si chiarirà sul finale…con un Price esaltato dal suo personaggio e che supera in recitazione la pur brava Steele. Tutto è gotico e muffa…sulle pareti e nell'animo dei personaggi. Grandi incassi e divieto per i minori (questa era l'America dei primi dei sessanta). Price vale da solo il film…

giovedì 11 ottobre 2012

Days of being wild (Wong K.W.,1991)


Colori pastello e luci soffuse…gesti ripetuti a segnare il tempo che passa. Così inizia "Days of being wild", struggente bellissimo film di quel cineasta che poi ci donerà "2046". Wong Kar-wai è artista vero, che commuove con i suoi slow-motion e musiche perfette. La trama: E' il 1960 e Yuddy frequenta due donne, Su e Mimi…loro lo amano, lui non ne è capace. Vive la sua vita lontano dai sentimenti e non ammette legami duraturi, ma questa sua durezza sembra attirare ancor di più le due donne, che vogliono lui "bello e impossibile"…lui che non le adula ma neanche le inganna. Il giovane uomo partirà per le Filippine, in cerca della sua madre naturale…non riuscirà ad incontrarla incassando ancora una sconfitta da un destino (per tutti) segnato e inevitabile. Tutti i personaggi del film temono l'oblio, il vivere senza essere nei ricordi di qualcuno…quasi fosse questo il solo modo per sentirsi vivi. Vivo tanto quanto l'altro mi ricorda…questo a lettere d'oro è il motto del film. Ancora due parole su quanto Wong tenga alla perfezione dei suoi personaggi. Li pensa nei minimi particolari, li scruta con la sua camera e li copre di luce e ombre per renderli archetipi esatti della loro parte recitata. E poi…un regista che riesce a dirigere Maggie Cheung (la divina Maggie) e farla apparire dimessa e magari poco affascinante, dovrebbe, anche solo per questo, essere chiamato "maestro".

mercoledì 10 ottobre 2012

Rosetta (F.lli Dardenne, 1999)

...un film famoso, osannato. E' la storia di Rosetta, che vuole vivere, che vuole la sua vita, affronta il mondo dalla sua poverissima roulotte e con a carico una madre alcolizzata...ma la affronta senza apparente paura, reclama quel che non deve esserle negato...la dignità ancor prima che il lavoro. La sua forza è cinica, è fatta di espedienti..tradisce chi la aiuta per rispondere all'istinto della sopravvivenza e ne soffre in silenzio. Non ride, non urla...non piange, quasi mai. Non alza lo sguardo da terra, si lancia contro le difficoltà...cade. Il volto di Rosetta viene ripreso strettissimo...soffocante quanto la pressione psicologica che il personaggio subisce. Una recitazione sublime e poco spazio alle ruffianerie da botteghino. Film premiatissimo (giustamente)...Uno scarno racconto di una vita.


martedì 9 ottobre 2012

Melancholia (L. Von Trier, 2011)

E' il giorno del matrimonio di Justine, in quel giorno, durante quella fastosissima festa la sua depressione e vuoto interiore raggiungeranno l'apice. I festeggiamenti, le convenzioni familiari e borghesi, i suoi strani parenti le passano accanto ma non appartengono alla sua stessa dimensione...ora lei è aliena. I muscoli del suo corpo non hanno più ragione per sostenere il suo peso...il mondo sembra ai suoi occhi la rappresentazione di una fine d'atto già avvenuta e dove gli attori non smettono di recitare dopo il calare del sipario. Claire, sua sorella, capisce il disagio di Justine e vuol darle aiuto..ma anche quell'aiuto ora è superfluo, una catastrofe o un "giusto finale" incombono su tutti loro. Un enorme pianeta (fatalmente chiamato Melancholia) inghiottirà la terra e toglierà il senso ad ogni azione umana...sarà il niente dopo il sipario, il nero dopo l'ultimo fotogramma....Quindi è cosi che finirà...con i violini, poi silenzio...o più semplicemente poi "nulla". Odierete o amerete il genere umano, dopo il film...uomini che considerano gigantesco un pianeta ma mai grande quanto la loro superbia. Il film ne descrive alcuni: gli inutili (il marito di Justine, il suo capo o il neoassunto)...i buoni altruisti e deboli (Claire)...i calcolatori (il marito di Claire che saprebbero amministrare il mondo ma si uccidono per un calcolo non riuscito)...e i nichilisti (Justine, con un corpo tanto bello da dover essere immolato al dio/pianeta)...Quella Justine che avverte, come i cavalli e il loro istinto animale, la fine e si abbandona alla natura, al suo corpo e al finale. Dopo le lentezze dei primi minuti del film, del matrimonio farcito da personaggi ubriachi di vita e "giustamente" immersi in un ambiente ricco e apparentemente spensierato (un campo di 18 buche come giardino) e tanta ricchezza che li solleva dal loro male di vivere e li porta alla noia, arriva il vero film. Veniamo portati verso un finale bello e distruttore che annienterà dei piccoli uomini e un piccolo pianetino azzurro come il nostro...che ha grandi pensieri e forse troppe inutili speranze. Film indelebile...