sabato 31 maggio 2014

Horla, diario segreto di un pazzo - Diary of a Madman (R.Le Borg, 1963)

Non solo Poe, non solo Lovecraft…tra gli scritti “saccheggiati” da produttori e registi per rubare idee per pellicole di genere fantastico e horror dobbiamo annoverare anche un (bellissimo) racconto di Guy de Maupassant. Horla (letto alla francese) è il titolo di questo racconto e Horla, diario segreto di un pazzo è quello del film. Non è una riproposizione cinematografica fedele, anzi se ne discosta fortemente, ma basteranno due spunti ben scelti e l’aver furbescamente ritagliato il ruolo del protagonista esattamente per Price per imbastire un decoroso lungometraggio. Simon Cordier (Vincent Price), uomo di legge e scultore dilettante, visita in cella un uomo accusato di omicidio. Costui, in preda ad un raptus, lo attacca improvvisamente, spiegando di essere posseduto da uno spirito malvagio. Cordier, per difendersi, lo uccide involontariamente. Scosso dall’evento, comincia ad essere tormentato da incubi e visioni, nei quali vede anche moglie e figlio (morti, nella realtà). Il giorno in cui trova la testa della sua modella, uccisa e decapitata, nel suo studio si rende conto che le cose stanno mettendosi male. In realtà, lo spirito malvagio che possedeva l’omicida è ancora molto vicino…Quel che veramente viene a mancare nel confronto tra scritto e pellicola è l’atmosfera di una Francia fine XIX secolo che tanto aggiunge alle suggestive righe di Guy de Maupassant. Si nota lo sforzo, la ricerca del mobilio e degli oggetti di scena, si prova ma non si riesce. Price è tutto e può diventare chiunque ma non ha nulla della Parigi del libro, così come la pur brava Nancy Kovak (discreta attrice che lasciò la settima arte non appena diventata moglie di Zubin Metha) non è fino in fondo credibile nelle vesti della frivola e ambiziosa modella, personaggio inventato per il film e che soffre della superficialità nel costruirne carattere e storia. Ma la palma del “personaggio” meno riuscito va a quell’entità malvagia che nel libro sembra soffocare, dissanguare il protagonista, che ne cattura la volontà e da “corpo” all’odio. Nel film si conta su pochi e poco riusciti effetti speciali (imperdonabile il banale colore “verde spaziale” che evidenzia gli occhi di Pice vittima di Horla) per convincerci della presenza di chi non possiamo vedere e quel che dovrebbe essere una “altro da noi”, un corpo immateriale che si nutre del nostro odio, diventa poco più che un trucco da mago. Quel che invece cattura lo spettatore è l’espediente, nel film come nel libro, della voce narrante fuori scena. Siamo coscienti di ascoltare le parole di chi ha vissuto un’esperienza terribile e questa testimonianza rende “reale” la narrazione e interessante lo svolgersi della storia. La regia ha un timbro classico e questo ci aspettavamo dal prolifico Reginald Le Borg (quasi 70 film ha diretto prima di morire..!) e discreta la fotografia…son invece a dir poco odiose e insostenibili le musiche, indegne anche di una melensa operetta ruffiana e strappalacrime. 

sabato 24 maggio 2014

Il sangue del vampiro - Blood of Vampire (H.Cass,1958)

Vampiresco alternativo o, ancora meglio, un non-vampiresco. La figura del “nosferatu” è completamente assente per lasciar posto ad una variante scientifica del tema. Il Dottor Callistrato, interpretato dal bravissimo Donal Wolfit, è uno scienziato valente quanto pazzo. Dopo essere stato ucciso dai suoi concittadini che lo credevano un vampiro, con tanto di palo dritto nel cuore, torna a vivere grazie alle indicazioni che aveva lasciato al suo assistente. Il cuore di un “donatore a sua insaputa” lo riporterà in vita ma lo condannerà alla ricerca continua di sangue fresco per sostituirlo al suo. La sua posizione di direttore di un manicomio criminale gli permette di avere a disposizione cavie umane per studiare e reperire il sangue umano. Discreta produzione inglese, gotica e a tratti originale. Sempre giusta la recitazione e con non poche scene che un cinefilo entusiasta dell’horror non può far passare senza una giusta considerazione. Bella e brava Barbara Shelley, ennesima carta vincente del film. Nella versione non-tagliata (quindi quella non distribuita in Italia) il film presenta scene di sadismo non comune per l’epoca e che anticipa, e anticipa di buoni 20anni, alcuni temi cari, udite udite, addirittura al nazisploitation. Location di notevole effetto e atmosfera umida e pesante, così come riuscite sono le scene dove famelici cani da guardia banchettano con gli sfortunati che capitano in quel cortile di prigione. Curata e d’effetto la fotografia e tutto sommato buona anche la direzione di Cass…film singolare, produzione Hammer, che vale certo una visione.

sabato 17 maggio 2014

La morte dall'occhio di cristallo - Die, monster, die! (D.Haller,1965)

L’American International Pictures (AIP) è la gloriosa casa di produzione statunitense che, anche grazie ai lavori di Roger Corman tratti dai romanzi di Poe, riuscì a ritagliarsi il ruolo di concorrente dell’inglese Hammer in quei tanto prolifici anni ’60. Corman era il regista di punta e Daniel Haller il suo scenografo (Il pozzo e il pendolo è opera sua). Haller si cimentò anche dietro la macchina da presa e quando Corman litigò con la AIP ne prese (addirittura) il posto. Uno dei film in cui firmò da regista è La morte dall’occhio di cristallo (il titolo originale è ben più evocativo: Die, Monster, die!) Dopo aver praticamente esaurito la “vena aurea” che i racconti di Poe e la direzione di Corman rappresentarono per la AIP, si cercò (senza troppa fantasia) ispirazione nei lavori di quello che è considerato il successore dello stesso Poe. Parliamo di Howard Phillips Lovecraft e dei suoi racconti tanto cari agli appassionati di fantascienza. Uno di questi Il colore venuto dallo spazio è il soggetto del film di cui stiamo parlando. Una delle caratteristiche dello scrivere di Lovecraft è il saper dosare con perizia (ma certo nulla rispetto all’inarrivabile Poe) l’horror e l’onirico e l’aver creato atmosfere che precorreranno i tanti Sci-Fi di successo. L’esperienza da sceneggiatore di Haller gli permise di riportare quelle “sensazioni lovecraftiane” sulla pellicola e sicuramente è una delle cose che apprezzeremo di più durante la visione. Bella fotografia, colori saturi e discreti effetti riescono a catturare la nostra attenzione fino al termine della pellicola senza stancarci. Tutto questo niente potrebbe senza la presenza scenica di quello che è tra i più famosi interpreti dell’horror di sempre, si parla di quel Boris Karloff che fin dal suo Frankenstein del ’31 fu la miglior maschera, la più adatta, l’archetipo stesso dell’attore nei film "dell'orrore". Quando Karloff interpreterà il vecchio Nahum Witley ne La morte dall’occhi di cristallo è ormai il 1965 e la sua carriera è praticamente alla fine. La sua malattia lo costringe alla quasi immobilità e forse è questo il motivo per cui anche nel film il personaggio passa quasi la totalità del tempo su una sedia a rotelle. Ma a Karloff basta muovere una ruga, un sopracciglio e uno sguardo per fare un film. Tanta bravura è ancora più evidente quando è messa a confronto con l’imbarazzante recitazione di Nick Adams (sembra passare li per caso in ogni singola posa) e quasi ci distrae dallo spaventarci per il volto deforme della signora Witley o per le creature mutanti. Il film rimane solido e ben girato, con un buon ritmo e con quel “lo facciamo bello con poco” che distingue sempre le produzioni AIP. La trama: L’arrivo del giovane americano Steve Reinhart nella cittadina inglese di Arkham viene accolto con sospetto e diffidenza. Steve si trova lì perché chiamato da Susan Witley, discendente di un uomo che aveva nomea di essere uno stregone, e figlia del vecchio Nauhm (Boris Karloff), scontroso e solitario custode di un castello su cui sembra aleggiare la morte, Il giovane, nonostante la madre di Susan cerchi di dissuaderlo, si mette ad indagare e scopre che nel maniero è conservato il frammento di un meteorite le cui radiazioni provocano alterazioni genetiche sulle piante, sugli animali e … sugli uomini. Chi è vittima della misteriosa radioattività subisce una orrenda mutazione prima di conoscere, tra indescrivibili sofferenze, una morte per autoconsumazione. Questa è la sorte che tocca a coloro che si avventurano nel regno di Nauhm…

lunedì 12 maggio 2014

La vergine di Norimberga (A.Margheriti,1963)

La biografia e la filmografia di Antonio Margheriti, questo basterebbe per un corso completo sulla regia cinematografica. Archetipo del regista di genere (di una quantità di generi) e sopraffino conoscitore dei gusti del pubblico, che indovina e ancora più spesso forma e anticipa. Il primo amore di Margheriti (Anthony Dawson, pseudonimo usato in tutti i suoi film) fu la fantascienza e il suo Space Men fece scalpore per la maestria dimostrata nonostante un budget inesistente...anche gli inarrivabili States si accorsero di questo giovane regista italiano e non si fecero sfuggire l'occasione di fare soldi con una furba distribuzione della pellicola. Stessa sorte non toccò al ciclo detto Gamma Uno, la colpa fu della voracità della stessa produzione USA, che dopo Space Men pensò di ricavare ancora una volta moltissimo con poco e assegnò al nostro Margheriti il minimo indispensabile per tenere in piedi il set...fare anche i miracoli era troppo per il nostro pur bravo regista. Quello che a noi qui interessa sono i film che Margheriti dedicò al genere horror. Titoli che nella memoria dell'appassionato sono vere pietre angolari del nostro cinema di genere. Film come Contronatura, I lunghi capelli della morte e Danza Macabra sono sinonimo di horror italiano. Il primo film che iniziò tutto questo fu La vergine di Norimberga. Un gotico di fattura classica e, almeno apparentemente, classico anche nella trama...ma Margheriti è sorprendente per definizione e darà, come sempre fece nelle sue opere, una svolta particolare e personale al suo film, la "cifra stilistica" margheritiana è evidente e notevole, basta saperla riconoscere. La vergine di Norimberga può contare su bei nomi da locandina, Cristopher Lee e Rossana Podestà su tutti ma anche i "non protagonisti" meritano attenzione, grazie a una regia capace e attenta nel dirigere gli attori. Questo pregio fece si che tanti nomi famosi del nostro cinema non rifiutarono mai un film con Margheriti, Lisa Gastoni, Franco Nero o Giuliano Gemma sono solo alcuni che hanno avuto il piacere di vedere il loro nome sulle locandine dei lavori margheritiani. L'ottima fotografia e l'azzeccata location intrigano immediatamente lo spettatore, la bellezza della Podestà (che magari eccede fin troppo nell'uso della sua camicia da notte, quasi unico costume di scena per tutta la durata del film...ma di questo pochi si lamenteranno veramente) è spiazzante e ancora più evidente quando il genio Margheriti deciderà di specchiarla nel gelido materiale e nelle orrorifiche fattezze della macchina di tortura medievale che darà titolo al film. Un confronto che rimane subliminale ma che sortisce effetti. Ottima è anche la ricostruzione storica, il passaggio temporale che ci porta dal medioevo alla seconda guerra mondiale e all'oggi (il film è girato e ambientato nel 1962) è perfettamente risolto e questo sarà il segreto che ci aiuterà a godere del bel finale e della svolta "storica" che avrà il film. Di notevole effetto è il trucco usato per la maschera del "generale nazista" (non aggiungo altro per non rovinare la visione) che darà l'ultima sferzata ad un film che vive della bravura del suo regista e della credibilità del cast. Lee ha un ruolo tutto sommato marginale, ma con quel poco copione da comunque sfoggio di bravura e serietà professionale. Un film tanto ben fatto che sembra notevolmente più moderno dei suoi anni e, anche se soffre di una lentezza ormai lontana dai nostri gusti, riesce a distinguersi da tutti i film gotici nazionali che lo hanno preceduto e a rimanere ben distinto da quanti lo seguiranno. La trama: Mary (Podestà) scopre che nel castello del marito (Rivière), in Germania, qualcuno ha rimesso in funzione la macchina della tortura del museo, e se ne va in giro incappucciato come un suo sadico antenato famoso per aver torturato e ucciso decine di donne. (Film completo nel link di seguito) 

domenica 4 maggio 2014

Mircalla l'amante immortale - Lust for a Vampire (J.Sangster,1971)

Quella di produrre una serie di film conosciuti come “La trilogia dei Karnstein” fu per la Hammer una scelta poco felice. I successi ottenuti con i tanti Dracula interpretati da Cristopher Lee, le varie Mummie e i Frankestein…non potevano durare in eterno, e si decise di portare sullo schermo una qualche novità, un motivo di interesse per richiamare al botteghino quel pubblico che aveva tanto amato le classiche produzione horror firmate Hammer ma che ormai disertava le sale, stanco del solito buon brodino condito con canini aguzzi e polverose mummie egiziane. Un libro, o meglio un racconto, del 1870 fu scelto come soggetto dei tre film di cui parliamo, un racconto di Sheridan Le fanu. Il primo di questi, Vampiri amanti (già recensito), è quello che riscosse più successo, grazie ad una meravigliosa Ingrid Pit. Il secondo (di questo parleremo) aveva come titolo Mircalla l’amante immortale e non occorre acume immenso per intuire che il nuovo filone scelto dalla Hammer per il suo rilancio era quello dell’ Erotic-Horror. E se le grazie della Pit erano ancora ben presenti nei sogni degli “appassionati dl genere” in questo secondo capitolo la scelta cadde su una pressoché sconosciuta attrice danese (Yutte Stensgaard) per il ruolo di Mircalla e soprattutto si scelse una brigata di giovani ed avventi donzelle, le cui scollature (e nella versione non censurata del film anche con qualche chiacchieratissimo nudo integrale) condirono e decisero le scelte erotiche di molti. L’horror lascia spazio all’eros e la bella fotografia che rese famose le produzioni Hammer è ora al servizio dei corpi delle giovani fanciulle che oscurano completamente e fortunatamente le interpretazioni mediocri dei colleghi maschi. Insopportabile la recitazione di Mark Raven…assurdo Conte Karnstein, inguardabile. Nota di merito la dobbiamo alla regia di Jimmy Sangster. La lode non è meritata per aver usato particolari tecniche o invenzioni filmiche, ma per aver portato a termine dignitosamente un film con un copione povero e spesso inconcludente. Sangster fu chiamato con urgenza a dirigere il film, era molto più apprezzato in Hammer come sceneggiatore, per un incidente che toccò a Tarence Fischer, regista più dotato e quotato. Tutto sommato le atmosfere gotiche che tanto ci piacciono non mancano, ma quando la recitazione è tanto misera la buona fotografia e il manuale del bravo regista possono poco. Quel che veramente distingue questo secondo capitolo della trilogia dal bel Vampiri Amanti è una marcatissima “umanità” del personaggio di Mircalla. Qui la vampira ha quasi perso completamente la sua natura di creatura del male, è impegnata ad affascinare come farebbe una qualunque Annamaria Rizzoli le sue compagne e a regalarci numerosissime scene lesbo o a conquistare il bel professore e quasi dimentica di essere la vampira del titolo del film. La trama in breve: L’arrivo di Mircalla in una scuola per procaci fanciulle provoca pruriti sia tra le compagne che in Richard, uno scrittore che ha ottenuto un posto da insegnante. Ma in verità lei è la vampira Carmilla Karnestein… Film da vedere solo per curiosità e completezza se interessati alla celebre filmografia della Hammer.