martedì 31 dicembre 2013

Funny Games (M.Haneke,1997)

La malvagità, pura e insensata malvagità. Film che guarda, dal basso, Arancia Meccanica e ne attualizza i contenuti. Che sevizia non solo gli sventurati protagonisti, ma anche lo stesso ambiente borghese e le sue artefatte regole. Due giovani si fanno accogliere con l’inganno nella casa di una tipica famiglia austriaca dell’alta borghesia. E’ la loro casa di vacanze sul lago e si preparano a passare li del tempo. Diventano prede da sacrificare alla brutalità dei due aguzzini…che con modi gentili e guanti bianchi rendono ancora più assurda e grottesca la vicenda. Non c’è spazio se non per il crescente orrore nelle gesta dei due maniaci, psicopatici e crudeli. Haneke butta via tutti i filtri morali e concede allo spettatore solo la “cortesia” di non inquadrare direttamente la violenza. La lascia immaginare e provare senza che un fotogramma si soffermi o viri verso lo splatter. Direte voi..dovrà anche esserci una spiegazione a tutto questo, dovrà esserci un motivo per tutta quella malvagità. Paul (uno dei due aguzzini) ne darà diversi, dirà di essere un drogato in cerca di denaro per comprare dosi, di essere un reietto dalla società o di aver avuto abusi da bambino…ma nulla di questo è vero, sono solo le risposte che vogliamo sentirci dare, sono spesso e solo i nomi che noi comunemente diamo al male e a quello che non vogliamo ammettere che questa nostra società “perfetta” riesce a partorire. Non contento di sconvolgerci con tanto “realismo” fa fare a Paul uno di quelle cose che raramente si vede fare in un film…lo fa rivolgere direttamente a noi, guardando in camera e imbastendo un dialogo a senso unico che a tratti ci intimorisce e imbarazza. Questo il regista vuole, scatenare una sommossa nell’anima di chi guarda, prendiamo le parti dei poveri Anna e Georg e del loro piccolo e non possiamo che partecipare empaticamente a quanto stiamo vedendo. Ovviamente la visione è sconsigliata a chi sa di non poter sopportare tanta violenza, e non è certo l’assenza di sangue a rendere tutto più accettabile…il film risulta meno “guardabile” di uno splatterone alla Fulci o di un pulp estremo, siete avvertiti. Il sottogenere del film thriller-horror in questione è conosciuto come “rape without revenge” che già da solo la dice tutta su quanto vedremo e quanto accadrà... (anche l’amato Bava ne diresse uno Cani arrabbiati del ’74, gran bel film..cercate gente, cercate) La tragicità del finale e la trovata del regista di far riavvolgere la pellicola (forse il primo esempio dell’uso di un effetto digitale sul finire dei ’90) e far rivivere allo spettatore quanto accaduto, ha il duplice compito di ricordarci che tutto quello è finzione e di smascherare il nostro rimorso nel sentirci ora sollevati da questo. Purtroppo, sembra affermare Haneke, c’è vita anche nel male che ci circonda, farne giornalmente i conti è doveroso e in un certo qual modo auspicabile. L’inconsapevolezza della spensierata felicità, nel recinto delle belle case e la cinica accettazione del voler tenere lontani dalle nostre “salve” vite il male, come se dovesse accadere sempre ad altri, è quanto di più sbagliato possa esserci. Paul, Peter o i Drughi di Alex sono l’immagine stessa del lato oscuro dell’uomo moderno, cinico, volgare e malvagio, ma mai così "umano".


lunedì 23 dicembre 2013

Don't look now - A Venezia...un dicembre rosso shocking (N.Roeg,1973)

Il film prediletto, quello che, per quanto amate, non vorreste addirittura condividere con nessuno, è cosa personale e diversa per ogni cinefilo, è unica quanto le sue impronte digitali, quanto l’iride. Lo può diventare per una trama che indiscutibilmente parla di noi e della nostra storia, molto più spesso invece è solo questione di atmosfera, di quanto a fondo le “pennellate” del regista sono riuscite ad arrivare..colorando quello che in noi non sappiamo neanche nominare. Per moltissimo tempo il mio “preferito” è stato Don’t look now di Nicolas Roeg, un qualcosa che andava oltre la passione per i classici dell’horror, un film che dovrebbe primeggiare nelle classifiche di ogni cosa riguardi il cinema…per l’eleganza del girato, l’uso della camera, l’interpretazione e, non da ultima, la scenografia. Drammatico è l’incipit, sequenze montate con una maestria sorprendente e cambi temporali spiazzanti almeno quanto coinvolgenti. Troviamo Laura (Julie Christie) e John (Donald Sutherland) a Venezia, dove lui è impegnato nel restauro di una chiesa. Hanno lasciato l’Inghilterra dopo la tragica morte della loro figlia minore, annegata nello stagno vicino la loro casa. Nella città lagunare incontrano due sorelle scozzesi (figure indimenticabili e degne di fama internazionale) che, grazie ai poteri medianici di una di loro, affermano di vedere il fantasma della loro piccola e di saperla felice. Questo già basterebbe alla stesura di una intera sceneggiatura, e invece la storia si intreccia con quella di un serial killer che si nasconde tra le calli della bella Venezia. Una Venezia mai così ben “utilizzata” come quinta naturale per un film, mai i suoi odori, le sue muffe e le incrostazioni dei sue antichi palazzi sono stati così ben rappresentati, è la perfetta città dove il mistero, il sogno e l’incubo riescono ad avere anche un loro effluvio, sinistro, decadente e angosciante. Venezia è teatro, strade strette che soffocano di aria umida, e palazzi e ponti come attori protagonisti di un gran film. La Christie non è più la Lara di Zivago, la sua sensualità e bellezza si scontrano con quella città e la sua interpretazione è credibile e perfettamente calata nel personaggio, tanto da dar vita con Sutherland ad una delle più discusse e famose scene di sesso in quei turbolenti anni ’70, quasi a voler rimarcare ancora una volta l’essenza stessa del film, quella lotta tra la vita e la morte, quella ricerca di un ponte e di un legame verso qualcosa che avvertiamo senza vedere, come la medium che “accompagna” Laura nel suo cammino. La donna ha dei presagi, insiste nel convincere John a lasciare Venezia, incombe un tremendo pericolo su di lui, la sua stessa vita è in gioco…e strani accadimenti, apparentemente fortuiti sembrano dare ragione alle medium. Il serial killer continua a mietere vittime e noi cominciamo a sospettare di ogni nuovo personaggio che Roeg decide di farci conoscere. Un vescovo, un direttore d’albergo…tutti sembrano poter nascondere terribili segreti, e John quando incontra sul Canal Grande sua moglie Laura, che sarebbe dovuta partire per l’Inghilterra, insieme alle due ambigue amiche veneziane e in evidente stato di alterazione, teme per la sua vita e decide di denunciare tutto allo polizia. A questo punto la trama si complica, la realtà non è più tale e tutto si sta preparando per un magnifico coup de theatre. Dopo un rallentamento del ritmo e difficili e criptiche sequenze ora tutto vorticosamente si sta per svelare. Il finale, vera gemma del film, sono dieci minuti di delirio e colpi di scena. Divertitevi a trovare quando e in quanti posti e cose il regista ha nascosto il rosso del titolo, pensatelo non come un vezzo, ma come la punteggiatura di un bel racconto. Tra le calli e i sottoporteghi di Venezia si è messa in scena la vita e la morte...

domenica 15 dicembre 2013

Operazione paura - Kill, baby...Kill! (M.Bava,1966)

Surreale, fantastico…incubi e realtà, un amalgama perfetta per un film pari solo a La maschera del demonio. Bava in gran spolvero, vero orgoglio nazionale. Fotogrammi assurti a livello di icone e marchi indelebili dell’importanza che il cineasta sanremese ha avuto nel cinema di genere. Immagini in movimento che ispireranno o, ancora più spesso, verranno dichiaratamente copiate da nomi come: Fellini, Argento Kubrick e Barton. Melissa, la bambina-spettro del film, con la sua diabolica risata sommessa, è la figura più inquietante possibile, è capace di far riaffiorare paure che non confessiamo neanche a noi stessi…è quanto e più dei demoni-bambini di famose produzioni nipponiche ed è perfetta come la sua palla, che tiene stretta a sé come tenesse in mano il nostro smarrimento. Melissa che è interpretata dal figlio (maschio) di un conoscente di Bava e che, anche per questo, ha sguardo e sorriso ambigui come una Gioconda e gli occhi fatali della Medusa. Il Dottor Eswai giunge in un paese desolato nella Germania di inizio ’900, dove numerosi morti oscure hanno bisogno di una spiegazione..e quella che in fine troverà non sarà affatto piacevole. Come un moderno Hutter si aggira tra i ruderi e gli atterriti abitanti del posto, una locanda e una sinistra villa (alla pari del castello del Conte) ci portano alle medesime atmosfere che Murnau darà al suo capolavoro…capiamo che l’ennesimo scontro tra il male e il bene sta per avere luogo. Girato in quindici giorni a Faleria (Viterbo), gotico come un horror della Hummer e sperimentale per tecnica e inquadrature, sembra nato per essere argomento per tesi di esame finale di scuola di cinema, per fotografia (virata in giallo come si era soliti fare per gli horror di inizio secolo), regia e originalità. Una recitazione di buon livello (sempre considerando l’inesistente budget a disposizione) e una storia che, nella sua semplicità, riesce a convincere, aggiungono punti al risultato finale. Altra figura che aiuterà il Dottor Eswai a cercare di darsi risposte a quel che accade è il commissario Kruger (se volete vedere anche nell’assonanza con il nome del più noto Freddy l’ennesimo “omaggio a Bava…liberi di farlo) interpretato dal bravo Piero Lulli, che insieme ad una giovanissima Erika Blanc a Fabienne Dali (la maga Ruth) e a Giovanna Galletti (la baronessa Graps), con la sua solida recitazione, compongono il cast dei pochi nomi noti al grande pubblico che nel 1966 vide Operazione paura nelle sale. Come in tanti film, thriller o horror che siano, dobbiamo riscontrare la presenza di un oggetto particolare, una scala a chiocciola (fotografata e “colorata” egregiamente da Bava), che non possiamo che mettere tra le cose che, evidentemente, più aiutano a rendere palpabile quella sensazione di vertigine e stordimento che i registi di film di genere cercano per le loro opere, da quella nel film di Siodmak alla famigerata scala di “Vertigo”…curiosità da cinefilo. Come una curiosità è trovare qui, come in tanti altri film di Bava, quel particolare tono di verde nelle luci, che il regista usava per dare suggestione alla scena…un improbabile colore che rende surreale e a tratti psichedelica la sua “fotografia”, che rende il ferro di un’armatura ancora più gelido o una semplice stanza un antro spettrale. Un film imprescindibile per appassionati del genere e non, una prova d’artista che ha nella bellezza dei suoi fotogrammi la sua forza e nella firma di un grande regista quel che la rende un “capolavoro”.

domenica 8 dicembre 2013

La morte ha fatto l'uovo (G.Questi,1968)



Di quanto originale sia l’avventura cinematografica di Giulio Questi nel panorama dei cineasti italiani, della sua militanza (che segnò praticamente tutto della sua filmografia) nelle brigate partigiane,  dei titoli e delle bizzarre trame dei sui pochi film…di tutto questo lascio a voi il piacere di cercare notizie e scoprire uno dei più originali e dimenticati della storia della “settima arte” di casa nostra. Uno di questi  suo  “strani” lavori è La morte ha fatto l’uovo del 1968. Quel 1968 che fu spartiacque per una generazione e che ha farcito, per mano del nostro regista, di tutto i suo umori la pellicola in questione. Anticonsumismo, attacco ad una borghesia ridicola nelle sue stessi vesti e un inno ad un, rivoluzionario per definizione, essere giovani e al dovere di avversare e sconfiggere la generazioni dei padri e dei nonni e il loro stucchevole conformismo. Tutto inizia in un moderno motel vicino l’autostrada, una serie di strani avventori e stranissimi comportamenti destabilizzano chi guarda il film…poi in una stanza un omicidio (scena colpevolmente tagliata nella versione italiana, questa come altre, dove quel po’ di nudo sembrava dovesse sovvertire chissà quale ordine sociale..) e conosciamo uno dei protagonisti, è Marco (Jean-Louis Trintignant)…industriale avicolo e, per quanto ci lascia capire il regista, uccisore di prostitute. Sua moglie (Gina Lollobrigida) è la titolare dell’azienda, la padrona, che tratta gli operai come i suoi polli e certo meno dei suoi macchinari, e che sopporta, anche solo per salvaguardare l'apparenza, il rapporto ben poco entusiasmante che ha con Marco. Penserà Gabry (la bella Ewa Aulin) a movimentare la trama, imbastirà una tresca con Marco e con un suo collaboratore, un personaggio il suo che risplende tanto per la purezza della sua cattiveria quanto per la bellezza dell'attrice. La trama non è sempre facile da seguire e magari Questi eccede nei sottesi  pistolotti politico-sociologici, ma paradossalmente questa deforme struttura di trama e girato riesce ad essere anche la forza stessa del film, lo trasforma se non in un bel film almeno in un oggetto di quelli da usare in autocelebrativi discorsi tra cinefili, di quelli dove si cita il cinema francese a sproposito e si arriva ai massimi sistemi anche partendo dalle inutililmente ammicanti movenze della Lollo nel film in questione. Ricatti e inganni e falsità sono la spina dorsale del film, si intuiscono orrore e cattiveria più che vederli, in tutto il film e di più nel finale ci sentiamo partecipi di qualcosa che sta per accadere…qualcosa di più deve esserci e lo avvertiamo bene, quei personaggi hanno da nascondere qualcosa e le loro maschere non possono che celare ben più che i loro vizi borghesi. Cosi sarà…la trama sarà sconvolta e un cattivissimo finale arriverà a sorprenderci per una evidente e voluta crudeltà e tutto si svolgerà in un clima da resa dei conti da lotta di classe. Film interessante, film sperimentale e complesso..che ha il suo limite nella inesistente espressività di Trintignant, nella lentezza e poca fluidità della trama e nella quantità di attenzione che ci richiede per essere apprezzato. Musica e montaggio di spessore e tanto farcito di temi sociali (dal capitalismo assassino alla pericolosità della biogenetica) da risultare ora motivo di conversazione ora motivo di repulsione per il cinema impegnato…ad ognuno il suo. Giulio Questi come Bunuel…affermazione non poi cosi assurda come sembra.

domenica 24 novembre 2013

I Diabolici - Les Diaboliques (H.G. Clouzot,1955)

Vi dovessero chiedere quale film primeggia nella vostra personale classifica dei thriller…cosa rispondereste? La risposta sembra ovvia..Psyco. Il film del baronetto Hitchcock è pietra di paragone e una vera icona, ma esistono film più “nascosti” che hanno pari valore e pari bellezza…ed alcuni hanno anche preceduto Psyco di diversi anni. Uno di questi è un intrigante film francese: I Diabolici. Film di H.G.Clouzot del 1954, sei anni prima di Anthony Perkins e della famigerata doccia. Una curiosità: qui, come nell’altro, l’omicidio chiave del film avviene in bagno, in una vasca, quasi a voler utilizzare in entrambi l’elemento acqua come metafora di vita che scorre e che viene “interrotta” con la facilità con cui si riesce a serrare un rubinetto. Si bandisce qualsiasi nota musicale, il film è pervaso da un silenzio assordante e sembra la migliore colonna sonora per le gesta delle due protagoniste femminili. Una (Vera Clouzot) è la direttrice in un collegio vicino Parigi e l’altra (Simone Signoret) una delle insegnanti. Il loro piano è uccidere, facendolo sembrare una disgrazia, il marito della direttrice, dispotico e manesco donnaiolo, che tiene entrambe in pugno con la paura e la violenza. Fuggono dal collegio e, sicure di essere seguite dall’uomo, lo fanno cadere in una trappola e lo uccidono…questo l’inizio del film, poi colpi di scena e sconvolgimenti di trama ci faranno assistere ad un bel esempio di cinema d’autore, thriller virato all’horror e fotografato come i migliori noir. Solo l’interpretazione della Clouzot appare sopra le righe, esageratemente drammatica e poco adeguata al personaggio, per lei anche qualche piccola concessione al sexy (camicia da notte trasparente, fin troppo per i primi anni ’50…ma siamo pur sempre in Francia), per il resto tutti all’altezza dei ruoli. Parlando di personaggi e fatti che ce ne ricordano altri, il commissario del film è incredibilmente simile in movenze e comportamento nel modo di indagare al tenente Colombo , tanto da farci dubitare si tratti di una semplice coincidenza. Trama e ancor più finale tanto copiato in futuro da altri e ben meno meritevoli film da far gridare al plagio ad ogni inquadratura. Film dall'atmosfera unica.

martedì 12 novembre 2013

Il Tagliagole - Le Boucher (C.Chabrol,1970)

Non servono sempre i tetri corridoi di un castello o boschi brumosi tra ululati e ombre sfuggenti per poter rappresentare l’orrore, non solo deformi e pazzi zombie possono generare paura…a volte, anzi spesso, sono quotidiano e vicinato la vera fucina del peggior terrore, quello che unge le giornate di tutti, quello che quasi sempre è represso dal nostro buon comportamento educato e civile, ma che in tutti noi esiste. Se c’è da rappresentare il morboso del vivere in provincia, la noia e l’angoscia dietro le maschere dei vari personaggi del paesino e le loro nascoste devianze…pochi più dei cineasti francesi potrebbero far meglio. Fin dalle prime scene del banchetto nuziale iniziamo a sospettare, a qualcosa dietro quelle risa e quei canti non riusciamo a dare un nome e un volto, ma c’è...e già ci soffoca. Complice è la musica (come è sempre in un film, muti o sonori che siano) che anche quando dovrebbero essere le ben note ballate francesi ad accompagnare la camminata della seducente e gelida maestra Helene (Stephane Audran) diventano invece note distorte e hitchcockiane. Quindi dov’è quel male che avvertiamo e non vediamo ancora? E’ in un serial killer che uccide le ragazze del paese…un insospettabile che vive tra loro. Un parallelo tra questo film e il colpevolmente sconosciuto The Wicker man di Robin Hardy (1973) è facile ed opportuno da fare, hanno la medesima atmosfera, la medesima sensazione di quanto possa essere sconvolgente il vero volto dietro la maschera di una forzata felicità. Felicità che nel film di cui parliamo oggi dovrà ben presto lasciare il posto alla paura, quell’assassino è vicino, forse il paese lo conosce…e una traccia sta per smascherarlo. Il ritmo del film è lento il giusto e certo non riscontrerebbe i gusti di chi ama frenetici inseguimenti o vorticosi cambi di inquadratura, ma è inesorabile nello sprofondare in un baratro che solo un thriller con tanta eleganza come questo riesce a imbastire. La stessa ragazza che nell’iniziale banchetto di nozze era la felice sposina ora è l’ennesima vittima, la stessa comunità che aveva gioito e brindato ora si ritrova al suo funerale, impotenti si scoprono e impotenti sono nel difendere i membri di quel microcosmo che sono e che con le regole non scritte di una strettissima convivenza dovrebbe salvarli dal “pericolo”. Rimane da trovare il colpevole…Chabrol è bravo a darci indizi e farli saltare subito dopo, crediamo di aver capito e invece ci vorrà gran parte del film prima di arrivare a scoprire la verità. Questa, una volta svelata, ci porterà ad un finale bello e seriamente triste…da godere fino all’ultima inquadratura. Buon film, per il bel affresco che abbiamo della provincia francese e per un buonissimo “soggetto”, che avrebbe forse avuto bisogno di essere sviluppato di più in tutta la durata del lungometraggio e non limitarsi ad un picco qualitativo nel quarto d’ora finale…minuti finali di gran cinema e di ottima recitazione dei due protagonisti.

venerdì 1 novembre 2013

Nomads (J.McTiernan,1986)

Gli esordi, per attori e registi, spesso nascondono la vera natura, il vero talento e certamente la grande passione di questi nel cimentarsi con i primi, sempre delicati, passi nel rilucente mondo della settima arte. Nomads è questo per John McTiernam (il regista) e praticamente (escludendo le serie tv) lo è anche per il bel Pierce Brosnan. McTiernam dirigerà poi Die Hard e Ottobre Rosso, successi…ma la vena dello sperimentatore, il voler dimostrare a colleghi e mondo la sua bravura avrà già lasciato il posto alle regole dei più “educati e corretti” blockbuster. Questa “opera prima” è invece di una eleganza rara e tanto piena di naturale maturità che è capace di ritagliarsi, nel panorama dei tanti horror made in USA anni ’80, un posto di sicuro valore…avrà poca diffusione, come succede spesso ai bei film di genere, ma non l’oblio a cui sono destinate, dopo il clamore iniziale, le grandi produzioni solo “chiacchiere e dollaroni”. Nomads si lascia scoprire un po’ alla volta, un po’ alla volta veniamo a capo del mistero che circonda la morte, durante un urgente ricovero in ospedale, di un antropologo famoso (Brosnan) ridotto come un vagabondo e che, in francese, sussurra qualcosa all’affascinante dottoressa che lo ha in cura (Lesley-Anne Down), mordendole a sangue un orecchio prima di morire…una frase sconosciuta, un “contatto” che avrà conseguenze spaventose. Numerosi flashback e una intrigante musica di sottofondo (dello “Stalloniano” Bill Conti) rendono il susseguirsi delle vicende quasi un’esperienza soffocante e a tratti vagamente allucinogena. L’essere riuscito a creare quest’atmosfera è il merito più grande del regista (anche sceneggiatore) e dei protagonisti, credibili e bravi senza alcun dubbio. Tanti piccoli criptici episodi ci traghettano verso la soluzioni dell’arcano e lo fanno con la stessa lentezza della PBR sulle acque del Nung che porta Willard da Kurtz..la stessa perfetta costruzione della tensione. Quel morso ricevuto porterà la nostra bella dottoressa a rivivere gli ultimi giorni di vita del suo strano paziente. A riviverli “fisicamente”, un transfert micidiale e debilitante…una trovata geniale, che avrà innumerevoli tentativi di scopiazzatura negli anni e nei film horror a venire. Il mistero è un gruppo di punk e il loro furgone nero, che si aggira minaccioso davanti la nuova casa del nostro antropologo e della sua moglie francese, un mistero che il curioso professore vuole capire e studiare. Li segue con la sua Fiat 131 (questo si che è un gran mistero! una fiat 131 scelta come macchina del bel protagonista americano?!..mah!?) e li fotografa…ma non può certo immaginare la vera natura di quei ragazzi, quanto poco di “umano” ci sia in loro e cosa finiranno per fargli. Non dormono, non vivono da nessuna parte..sono nomadi, come quelli fotografati nei sui tanti viaggi in africa o al polo, sono questo e ben altro, si..ma cosa? Come Alex e i suoi Drughi si aggirano per la città, borchie e pelle e violenza. Un horror metropolitano di gran fascino e che meriterebbe, oltre alla visione, molte più citazioni e fama nel panorama dei film di genere…poco sangue e tanta atmosfera.

domenica 20 ottobre 2013

Piano...piano, dolce Carlotta - Hush..hush, sweet Charlotte (R.Aldrich,1964)


Pieno proibizionismo, sontuosa villa sudista e un party dove lo champagne scorre a fiumi…per volere e vanto del ricco proprietario. In un atmosfera del genere, affine a "Via col vento" e senza che nulla ci possa far sospettare quel che accadrà, un uomo viene orrendamente mutilato, con tanta efferatezza e realismo da farci credere di aver assistito ad un fotogramma alla Romero incollato per scherzo in una pellicola del più stucchevole melodramma hollywoodiano…e il film comincia. Da adesso in poi impareremo a scorgere l'orrore in frame che normalmente non lo richiederebbero, l'ambiguo e la malvagità nello sguardo di tutti i personaggi. Dopo un salto temporale di quarant'anni, siamo ora sul finire dei '60, la vicenda prende ora tinte tipiche dell'horror gotico e del thriller…e questo che doveva essere in un certo qual modo il gemello diverso di "Che fine ha fatto Baby Jane?" vive di vita propria e affascinerà quasi quanto il più illustre predecessore. Bette Davis senza rivali e l'ottima interpretazione di tutti fanno il resto e nonostante la notevole lunghezza del girato il film non stanca e avvince fino al finale…riuscito e non scontato. Una fotografia magistrale e una magnifica ambientazione sudista, tanto giusta quanto indispensabile per le sorti di questo gran film. Carlotta Hollis ( il personaggio della Davis) è così ben riuscito da lasciarsi amare da subito, spaventa e spiazza, pazzia e dolcezza in un solo sguardo…pochi altri interpreteranno una così perfetta figura dell'assassina (o dell'eroina??!!). Le treccine da bimba in contrasto con un volto segnato dal tempo fanno tanto quanto faranno la maschera di Jason o le lame di Krueger…Eppure l'atmosfera non è tetra e pesante, un filo di nera comicità si insinua in una trama ben più torbida e ci aiuta nella visione, prova ne è il teatrale e quasi fumettistico personaggio della governante di casa Hollis, personaggio chiave e sorprendentemente chiarificatore. L'arrivo di Miriam, cugina di Carlotta, porterà le vicende di quarant'anni addietro ad essere incubi e spaventose visioni…peseranno le verità scoperte e le colpe mai perdonate. Perfetto film, perfetto in tutto.

giovedì 19 settembre 2013

La scala a chiocciola - The spiral staircase (R.Siodmak,1946)


Film di confine, dove la differenza di "genere" si dimostra quanto mai indefinibile e forse anche  inutile. Relegarlo nel recinto dei thriller, definirlo noir per le atmosfere cupe e le belle luci e ombre che possiede o un dramma per la trama da "famiglia rovinata" che indubbiamente il film propone..è veramente troppo limitativo per un'opera che ha ragione di essere considerata "pietra miliare" di tanto e tanto cinema a seguire. Primo film a mostrare la vittima e dal punto di vista del killer, e quando diciamo "punto di vista" intendiamo esattamente che la telecamera si sostituisce allo sguardo dell'omicida...che incombe sulla vittima e rende "viziata" l'aria, che porta lo spettatore a far così inevitabilmente parte della scena che la tensione raggiunge il suo massimo come nessun altro espediente filmico era mai riuscito a fare. Questo farà la fortuna dell'osannato Maniac di Lusting (1980) e prima ancora del film che di questa tecnica è l'archetipo..L'occhio che uccide (1960). Questo film aveva però qualcosa di ancora più sensazionale, non era la semplice e diversa posizione della telecamera a fare la differenza, ma quella servì anche a dare dimensione e sostanza alla mente malata del serial-killer...la lente che distorce la scena, le donne che egli vede sono rappresentate come la sua mente le elabora (si veda per tutte la visione della cameriera muta, ai suoi occhi è stata creata senza bocca e inferiore perchè deforme), entriamo nella sua fobia, viviamo con lui le sue mostruose e aberranti sensazioni. Questo porterebbe a fare anche una veloce riflessione su quanto il cinema stesso possa essere visto come una "educata" e "vendibile" rappresentazione di una vena di vojeurismo che è presente in tutti noi...di una curiosità affine a quella di chi assiste senza essere visto, di chi gode nel sentirsi allo stesso tempo partecipe ed escluso. Visione estrema e opinabile, mi rendo conto, ma non poi cosi tanto assurda.  Tornado al film...una trama che pecca, per i gusti odierni, di ritmo e sensazionalità, ma, abbandonando i filtri che il cinema contemporaneo impone, risulta comunque fluida e magari più affine alle pagine di un romanzo ottocentesco che ad una pellicola...ma di un gusto tanto classico e perfetto che si lascia apprezzare e godere. Sublime la recitazione, misurata e credibile. Attori tanto ben calati nella parte che a noi, costretti spesso a subire doppiaggio e "voci" spesso inadeguate, appare un delitto ben più grave di quello che vedremo sullo schermo sentire Alberto Sordi (davvero troppo difficile da non riconoscere) doppiare con la sua voce uno dei protagonisti...inutile e pessima scelta, ridicolizza il personaggio e irrita senza appello. 
Il film è una continua rappresentazione, anche cinica e certo disperata, della lotta predatore-preda. Questo il filo che lega tutti i protagonisti, questo il pensiero della "madre/cassandra", che vede i suoi figli e la sua giovane cameriera come fossero leoni e gazzelle, come quelle che aveva visto e ucciso nelle sue spedizioni di "caccia grossa" in africa con l'idolatrato e defunto marito. Cerchiamo per tutto il film di indovinare l'assassino, di scoprirlo da una frase che lo tradisca e questo ci risulta difficile...difficilissimo. Non per una particolare complessità della vicenda, ma esattamente perchè in tutti ci sembra di scorgere una colpa, in tutti ci sembra di scorgere motivi per essere carnefice o vittima. Non manca una, seppur leggera e senza nessun legame con le vicende del film, critica a quanto anche vicende truci come quelle raccontate nel film, possano essere digerite dal nostro quotidiano...passate nelle mente senza lasciare traccia e insegnamento. Uno dei personaggi esattamente dice: Che differenza fa un omicidio o una lotteria per noi che leggiamo il giornale? Crudele e vera riflessione su quanto la notizia rimanga più "voglia di sensazionale" che fonte di riflessione...cinici e distratti ci vogliono e noi li accontentiamo ben volentieri. In conclusione "La scala a chiocciola" è un film da non perdere, da rivedere più volte per carpirne le particolarità e le tante bellezze nascoste. Che appagherà patiti di psicologia, amanti dello slascher-movie e anche chi di un film apprezza la tecnica e l'uso della camera...un film, come si usa spesso dire, seminale. Che attacca una visione borghese e darwinista della società...dove non sembra esserci posto per diversi e i falliti, dove altruismo e solidarietà, se non addirittura l'amore, sono relegati a sentimenti di secondo piano e sottomessi all'arrivismo e al profitto. Questo genera mostri, tutto questo genera perversioni e volontà di sottomettere il più debole... La trama: All'inizio del secolo, una tranquilla cittadina del New England è funestata da una catena di delitti contro giovani donne affette da menomazioni fisiche. A casa del professor Warren, la governante muta Helen ha ragione di temere per la propria vita. Il suo destino sembra segnato.

martedì 3 settembre 2013

Re-Animator (S.Gordon.1985)


Personalmente non amo incondizionatamente lo splatter. Non riesco a diventarne un cultore, lo rilego in una particolare, magari particolarissima, nicchia del genere horror. Detto questo, ignorarne per solo snobismo anche i migliori film che lo rappresentano è colpa certa. Ci basta ricordare Cronenberg, Romero, Hooper e Raimi e (un po' di sano nazionalismo) il nostro Fulci per aver già elencato decine di lavori cult e vere icone del sottogenere splatter…almeno parlando dei classici. Oggi aggiungiamo a questi un film che è tanto sfacciatamente splatter, tanto è perfetta la sintesi dei canoni del genere, da poter essere a ragione usato come campione per dissertare di questi particolari horror movie. Re-animator di S.Gordon vede le sale a metà degli anni ottanta, quando con la "paura" ci si voleva anche divertire. Non sembri un ossimoro sciocco, vedremo come l'eccesso e il paradossale nel girare uno splatter diventino spesso motivo di una spiazzante ilarità. Partiamo dai titoli di testa (un cinefilo adora i particolari, vive di particolari), una sequenza meravigliosa di tavole anatomiche, che ipnotizzano e già incuriosiscono…farcite da un tema musicale non cupo, niente organi da chiesa, ma ritmato e sicuramente più che adatto ai disegni che accompagna…ma questo noi possiamo al massimo apprezzarlo, regista e musicista lo hanno pensato e inventato e questo non è per nulla una cosa scontata da fare, bisognerebbe sempre ricordarlo quando ci si appresta a criticare una qualsiasi opera. Bisogna avere lo stomaco preparato, questo è da dire subito. Anche se, come dicevamo, le scene più "crude" e realistiche sono spesso condite con un humor macabro che aiuta la visione, vedere scotennamenti e autopsie di uomini e gatti in presa diretta è alimento da dover conoscere bene prima di pensare ad  ingerirlo inconsapevolmente. Gelida e perfetta è l'interpretazione che J.Combs da del bizzarro e spaventoso Herbert West. Studente geniale e novello Dottor Frankenstein, diretto da Gordon con una maestria davvero difficile da riscontare in un cineasta alla sua opera prima, e opera prima è Re-animator. Il suscitare ribrezzo fine a se stesso è una delle scorciatoie più usate dai mediocri registi che si sono cimentati con lo splatter solo per la facilità con cui si può raggiungere il sensazionalismo per qualche assurda trovata, qualche sequenza dove ettolitri di sangue ridipingono pareti intere di stanze o una mannaia da macellaio, realisticamente e prevedibilmente,  che affetta le dita del malcapitato di turno. Nel film di oggi si è imbastita la trama misurando esattamente la distanza tra una commedia nera, surreale e demenziale all'americana, ed i vari Saw…nel mezzo esatto vive uno splatter come questo. Realismo estremo ma senza prendersi sul serio…questa la ricetta per un gustosissimo film. Non noioso, non banale, con un crescendo degno dei migliori lungometraggi del suo genere e sicuro nuovo gioiellino nella vostra cineteca di horror classici. Vagamente il soggetto è tratto da un racconto di Lovecraft del '22..ma la potenza dell'immagine allontana troppo, ed inevitabilmente le modifica, le sensazioni provate leggendo dalla loro pirotecnica rappresentazione sul grande schermo. Con Re-animator possiamo decisamente affermare che con l'horror si può anche ridere…La trama:Lo studente di medicina Herbert West scopre un siero per riportare in vita i morti: ma i resuscitati sono violenti ed aggressivi. Insieme al suo collega Dan cercano di porre rimedio alla loro catastrofica sete di scoperta, ma la situazione precipiterà inesorabilmente…

venerdì 16 agosto 2013

La bambola del diavolo - The devil doll (T.Browning,1936)


Un genio, Tod Browning è quel che nessuno definirebbe meno che questo. Aveva lo spettacolo e l'avventura nel sangue, viveva le sue passioni quanto più profondamente si potesse. Lascia una vita agiata per diventare un artista circense, poi attore e regista teatrale e l'inizio degli anni '20 lo vede già fermamente convinto nel voler stupire il mondo con i suoi film. La "settima arte" era la perfetta arma per sprigionare la sua maestria, così come dirigeva i suoi amici nelle rappresentazioni per i vicini a soli 14 anni, ora il suo impeto creativo ha modo di esprimersi e sperimentare appieno. I primi lavori muti e attori iconici come L.Chaney aumentano la sua fama di grande regista e con Lo sconosciuto(1927) toccherà già vette solo sognate dalla maggior parte dei suoi colleghi. Poi Dracula(1931) e Freaks(1932), capolavori…ma non per questo Tod è sazio, ha ancora voglia di saggiare novità, di portare sul telo del cinema lo stupore e i miracoli dei primi, alcuni lasciano basiti ancora oggi, effetti speciali. Lo fa con uno dei suoi ultimi film La bambola del diavolo, dove usa effetti ottici magistrali per rendere esseri umani e animali miniature viventi, capaci di interagire perfettamente con l'attore. Creare la suspance, curare luci, sguardi e inquadrature con una maniacale attenzione da far sembrare impossibile controbattere con qualcosa di meglio…questo è fare film per Browning, moderno e oltre il suo tempo. Per il soggetto prende spunto da un racconto di Merritt, ma le immagini in movimento danno a quel sentimento di vendetta (spina dorsale di tutto il film) una caratteristica peculiare…tanto che sarà da esempio per gli innumerevoli altri film che avranno lo stesso tema conduttore, tanti da poterli considerare un vero e proprio filone. Browning aveva già girato horror, e bene, ma qui crea un ibrido sconfinando nello sci-fi senza rinunciare alla sua firma di grande inventore di personaggi. Firma che riconosciamo nella zoppicante moglie dello scienziato evaso, la malformazione fisica è sempre metafora di individualismo per il nostro regista, e nel travestimento (incredibilmente riuscito) di Lionel Barrymore che si aggira vestito da donna per le strade di Parigi, pronto alla sua vendetta…moderno Conte di Montecristo. Non è bizzarro come Freaks, non ha fatto scuola come Dracula, ma di questa ultima opera di Browning si apprezza una coerenza stilistica e il giusto ritmo che sono propri di quei lungometraggi capaci di rimanere cari dopo la visione anche prescindendo dal loro più o meno alto valore. La direzione degli attori e la loro più che buona recitazione danno ulteriore importanza al film, che certo rimane lontano da potersi definire un horror puro ma ne porta i segni e le atmosfere, gotico senza la presenza di ragnatele e tombe, senza inutili orpelli e splendidamente essenziale nella fattura. Tra le tante scene da tenere in considerazione si deve porre particolare attenzione alla sequenza dove la bambola, comprata dalla moglie di uno dei banchieri che subiranno la vendetta di Lavond, si aggira per casa, salendo, scendendo e arrampicandosi, il tutto girato (nel 1936) con una perfezione e veridicità che anche il nostro occhio, ormai smaliziato da anni di computer grafica, si abbandona e dimentica che in fondo si tratta esclusivamente di sapienti effetti ottici…da rimanere senza parole. Quel che infine è d'obbligo sottolineare è un'altra delle pietre d'angolo nella cinematografia di Browning…uno spietato, gelido e quasi accusatorio cinismo, con cui vengono narrate vicende spesso al limite della morale comune e che forse anche e proprio per questo ci risultano così tanto affini ad un quotidiano che (questo avrebbe detto Browning) colpevolmente crediamo piatto e non degno di attenzione. La trama: Ingiustamente condannato, il banchiere Paul Lavond evade dall'isola del Diavolo con uno scienziato folle, che gli rivela il segreto per rimpicciolire cose e persone. Travestito da anziana giocattolaia , Lavond si vendica dei suoi soci disonesti con le sue creature, innocue come bambole finchè non le fa agire telepaticamente contro i suoi aguzzini…la vendetta sarà il suo unico scopo.

martedì 6 agosto 2013

The Mist (F.Darabont,2007)


Non è ancora un classico, ma lo diventerà. Ha dalla sua alcuni rimandi a pietre miliari del genere (vedi Fog di Carpenter o Zombi di Romero) e nella narrazione è quanto di più conosciuto e "rassicurante" per gli amanti della "paura" sul grande schermo. Tratto da un racconto di Stephen King, il film risulta la summa di quanto ultimamente piace agli americani in fatto di "terrore". Abbiamo il mostro creato da un esperimento segreto, la catastrofe imminente, il ricrearsi di un microcosmo di persone assediate nel market a combattere contro il "male" e la loro ,molto vaga, idea di solidarietà. Quel che più si apprezza nella pellicola è come ci vengono dipinti i vari personaggi, campione esatto delle diverse tipologie di personalità e caratteri che immancabilmente ci affiancano nella nostra distratta quotidianità . Dall'invasata religiosa che crede stia arrivando la fine del mondo, agli scettici, agli insospettabili eroi. Pur nella sua "classicità" il film non stanca, non eccede nel fenomenale effetto speciale o nei vorticosi inseguimenti mostro-preda. La paura di quel che potrebbe accadere, l'attesa della fine è tangibile e basta a reggere la storia. Di quanto questo film sguazzi nei più rodati canoni del genere lo vediamo anche nella emblematica scena della corda (sul finire della pima parte del film), non la spiego per non rovinare la sorpresa, una perfetta sintesi del modo di creare suspance all'americana…la paura di quel che non si vede palese e raffigurata nelle espressioni terrificanti e nei volti dei personaggi..roba da manuale. Darabont, il regista, aveva già lavorato su King, suoi sono Le ali della libertà e Il miglio verde..bei film e bravo regista. Portare le atmosfere dei romanzi di King al cinema potrebbe sembrare quanto di più facile da fare, invece il potere della parola scritta, dell'immaginazione di chi legge King e (a volte) la banalizzazione ovvia che può fare un film di un buon romanzo ha spesso fatto vittime in quanti si sono cimentati nell'impresa. Bello è Shining (ovviamente), bello è Misery…forse anche Christine o It, ma poi abbiamo decine di inutili lungometraggi dove si è sporcato l'ottimo soggetto con un facile e ruffiano splatter di bassa lega…vedi I vampiri di Salem Lot o Riding the Bullet. L'attacco dei mostri volanti all'interno del supermercato dimostra, dobbiamo dirlo, una certa carenza nell'uso della grafica. la poca credibilità, quasi caricaturale, non va oltre il videogioco di qualche anno fa e toglie voti al buon livello di tensione che la regia era arrivata a conquistare. La spina dorsale dell'intero film, come del racconto, è il sapere tutti i personaggi chiusi in un locale senza la possibilità di uscirne. Trovata non nuovissima, ma che permette a king di scandagliarne le paure e di arrivare a fare qualcosa che, ancora una volta, era quasi d'obbligo nei film horror dell'America dei 70…la spietata critica alla società statunitense. Il parallelismo che viene facile fare con Zombi (1978) di Romero è meno ovvio di quanto si pensi. Anche li abbiamo un supermercato e un microcosmo di personaggi, ma nel "nostro" l'aspetto "critico" è addirittura più accentuato che nel film di Romero. L'avere da parte di Darabont sottolineato tanto il personaggio della folle predicatrice, che snocciola presagi funesti…mischiando la bibbia e le frustrazioni di una vita da zitella di paese, è un vero e proprio attacco a quella faciloneria con cui la società americana tende a creare santoni e falsi profeti…ne ridicolizza le azioni e non le giustifica neanche quando possono sembrare provocate da un pericolo imminente. Personaggio questo che, credetemi, odierete a morte…e coccolerete la vostra parte razionale, lucidandola e tenendola ben pronta per l'uso, come fareste per una pistola da puntare contro ignoranza e pregiudizio. Finale indigesto e spiazzante, forse leggermente sotto le attese, dato il buon livello del film nel suo complesso. La trama: In una cittadina degli Stati Uniti una strana nebbia terrorizza la popolazione. Alcuni di loro si ritroveranno insieme rinchiusi in un supermercato e cercheranno di reagire a quanto capiranno presto essere nascosto in quella nebbia….mostri enormi, forse frutto di esperimenti militari. Fanatismo religioso ed eroismo divideranno le sorti dei protagonisti…fino ad un tragico e cinico finale.

mercoledì 31 luglio 2013

Ho camminato con uno zombi - I walked with a zombie (J.Tourneur,1943)


Jacques Tourneur…Il suo film più conosciuto è "Il bacio della pantera", sicuramente superiore per fattura e narrazione a quello di cui parliamo oggi. Ma un film rimane caro e lo si ricorda non soltanto per aspetti tecnici e tantomeno per l'assenza di errori o per la bravura degli interpreti…la memoria che abbiamo di un film è essenzialmente legata all'atmosfera che riesce a creare e a farci respirare durante la visione. Campione di questo è, almeno così è stato per chi scrive, il sublime Tabù di Murnau…coinvolgente come nessuna modernissima invenzione tecnica (3D, multisensoriale e altre amenità del genere) potrebbe mai arrivare a fare, quando un film raggiunge un tale risultato lo si ama per sempre. Appena un anno dopo "Il bacio della pantera" uscirà "Ho camminato con uno zombi"..esattamente nel 1943. Tourneur, quindi, gira un film con zombi e voodoo quando George Romero aveva appena 3 anni…e che ne impiegherà altri 25 prima di partorire il suo "La notte dei morti viventi". Quindi come può il caro Romero essere considerato (e per tutti è così) il progenitore dei zombi-movie?..di misteri si nutre il cinema, e spesso di superficiali critici cinematografici che li alimentano. Torniamo a noi...Di una suggestione degna dei film epici è già il breve monologo che Paul (T.Conway) recita sulla nave che porterà lui e Betsy sull'isola di San Sebastian. Descrive quei magici posti tropicali come fossero null'altro che una stupenda maschera sul volto di un moribondo. Le esatte parole sono: Qui tutto il bello muore e marcisce, persino le stelle…E questo è l'incipit perfetto per un film capace di toccare le corde dell'emozione come pochi altri, di avvolgerci con l'umidità di quelle foreste, con il mistero delle tradizioni tribali degli schiavi e persino con l'intenso dramma familiare vissuto dai protagonisti. Vi troverete a fuggire insieme alla protagonista per le antiche scale di una fortezza spagnola (una delle scene migliori del film) inseguiti da una catatonica donna in veste bianca o a soffermare lo sguardo su una polena raffigurante San Sebastiano (geniale e suggestiva trovata) nel cortile della casa..intuendone da subito tutta la macabra importanza che avrà sul finire del film. Ovviamente l'opera risente anche dello stile di recitazione che nei primi anni '40 era caratteristico dei film USA…magari troppo di maniera e innaturale, ma è una pecca che si tralascia facilmente considerando il valore del lungometraggio in questione. Notevole e ben girata è la scena dove le due donne attraversano la fittissima piantagione di canne da zucchero…dove incontreranno un guardiano con enormi occhi strabuzzati (una delle immagini che si ricordano maggiormente finita la visione del film) e giungeranno dove gli indigeni praticano le loro arti magiche e i loro balli rituali. Il film procede uscendo spesso dai canoni classici di un horror, si dilunga nel melodramma e intreccia i due generi. Questa è una sicura scelta del regista e dello sceneggiatore…questo strano ibrido tra un film drammatico e quasi romantico con le inquietanti parti dove la magia e il voodoo la fanno da protagonista, aiuta a creare una destabilizzante sensazione di smarrimento, quasi tutto fosse solo un sogno da cui non ci riesce a svegliare. Il vero e il reale vengono messi in discussione, si cercano spiegazioni e forza in idoli pagani, usandoli come difesa nei confronti della più crudele del nostri condizioni di uomini..la gelosia. Questo il sentimento, tutto umano, che diventa benzina sul fuoco di quelle vite tormentate…il vento umido e caldo dei tropici e l'incessante suono dei tamburi voodoo aizzano gli animi dei due fratelli e porteranno la vicenda ad un finale drammatico e repentino. Un film dove tutto è pensato per dimostrare una sola verità, e cioè che spesso, citando letteralmente, "..le creature di bellezza diventano sovente creature di morte". Questo non è altro che uno dei più usati e classici paradigmi dei film horror…la bellezza come dono di un qualche malvagio dio, dono non meritato e non gestibile dai soli esseri umani e dalla loro misera razionalità, creando quindi lo scenario perfetto per la magia e il soprannaturale…Film assolutamente da vedere. La trama: L'infermiera canadese Betsy accetta un incarico a San Sebastian, nelle Antille, per curare una donna bianca catatonica, Jessica Holland, che secondo i nativi e diventata uno zombi; sarà coinvolta in un drammatico intreccio sentimentale col marito di Jessica e il fratellastro e subirà fatalmente il fascino del clima di magia dell'isola…

sabato 20 luglio 2013

Dark Water (H.Nakata,2002)


Per un giapponese un film horror è un film dove la tensione, il terrore vero, deve scaturire più da quanto non viene mostrato che da corpi straziati o mostri brutti e cattivissimi. E' paura strisciante, meno molto meno digeribile del "banale" ribrezzo per uno splatter di scontata fattura. Il termometro per valutare la bontà di un film horror jap sono spesso le ore, e a volte i giorni, che dovranno passare per riconciliarsi con il sonno dopo la visione. Parliamo dei famosi J-Horror, dove la fanno da padrone gli yurei (fantasmi) e tanto di quel simbolismo (uno per tutti "la pioggia") da non poter essere mai completamente compreso da noi abitanti del resto del mondo. Conoscere cultura e tradizioni di quella terra porta il godimento di un film come Dark Water a livelli considerabilmente più alti…un godimento notevole per un notevole film. Correva l'anno 1998 quando, dio lo benedica, Hideo Nakata portava le pagine del libro Ringu di K.Suzuki sul grande schermo…e dopo quello tutto l'horror divenne vecchio e stanco e tutti i mostri divennero marionette patetiche, per tutti "paura" da quel momento in poi significò un abito bianco e lunghi capelli neri. Dopo un sequel Jap (Ring 2), a cui seguirà un remake USA nel 2005, Nakata torna a percorrere quegli stessi sentieri e non ci delude…l'ansia e il respiro interrotto sono, come allora, i nostri compagni di visione per questo suo nuovo lavoro. Piove, piove incessantemente su Ikuko e sua madre. Quella pioggia sembra spingere tutti a dover trovare un riparo…e il sicuro conforto di una casa diventerà anche il peggior incubo per le due protagoniste. Come per Ringu anche in questo film è il rapporto genitori-figli ad essere il terreno ideale dove ambientare le vere "paure" di questo secolo. Traumi familiari, separazioni e controversie per l'affidamento dei figli fanno da quinta alla messa in scena di questo racconto, ne sono lo sfondo perfetto…quasi come a dire che sono le vite sprecate dagli uomini a condannare gli yaurei a non andare via, le nostre insicurezze e il nostro odio sono il pasto dei non morti…vivono delle nostre paure e sono le nostre paure. La donna si immola per la sua piccola, e una bambina (Mitsuko) è il fantasma che la spingerà a farlo. Mitsuko vive ancora quella casa dopo la sua tragica morte, si nasconde tra le muffe di quell'appartamento, nell'umidità che divora i muri, è paura liquida come l'acqua che si insinua e che travolge. La donna cercherà spiegazioni a quel che accade, darà colpe al suo ex marito, accusandolo di volerla far passare per pazza e riprendersi l'affidamento della loro figlia, ma poi si rassegnerà a quell'evidenza e tutto quel dovrà accadere…accadrà. Girato con una fotografia che usa tutte e solo le tonalità del grigio per colorare di tristezza l'esistenza della giovane donna. La camera è usata nervosamente come nervosa e isterica è la madre di Ikuko..che ha paura ma vuole risolvere e capire quel che di strano le accade. Il primo incontro di questa con la piccola Mitsuko è una delle migliori scene del film, e da quel momento in poi non ci abbandoneranno più ansia, tensione e un disagio allo stomaco pesante e vicino alla nausea. Il film è talmente ben girato che durante la visione ogni corridoio, angolo nascosto o porta chiusa ci sembreranno punti di non ritorno da non superare mai, ci scopriremo spesso a chiudere gli occhi per evitare la visione (quanti film oggi possono tanto?) di un qualcosa di innocente quanto una bambina. A riprova di come i veri mostri da temere hanno sostanza nelle nostre complesse e difficili esistenze e che l'innocenza di un bambino è lo specchio perfetto e implacabile, capace di mostrarci il nostro vero volto, orrendamente sfigurato dalla vita quotidiana, frenetica e cinica. Da vedere assolutamente, ma non prima di aver fatto un lungo respiro e con la certezza che spesso questo ci rimarrà bloccato in gola. Senza stupirsi del ritrovarsi a fissare il soffitto dopo la visione, cercando di dar forme umane alle piccole macchie del tempo o del sentirsi sinistramente osservati durante il sonno. Buona visione e…buone notti insonni. La trama: Una donna in procinto di divorziare va ad abitare con la figlioletta in un tetro condominio, da cui una bambina è sparita tempo addietro; tra soffitti che gocciolano e cartelle rosse che ricompaiono, aleggia la presenza minacciosa della piccola scomparsa…

sabato 13 luglio 2013

La leggenda dei 7 vampiri d'oro (R.W.Baker-C.Cheh, 1974)


Canto del cigno di una delle più importanti case di produzione cinematografica, la Hammer. La H.F.P. si occupò quasi esclusivamente di horror nei suoi 50anni di vita, e moltissimi titoli sono ancora oggi dei veri oggetto di culto per i cinefili del genere. Bela Lugosi, Christopher Lee e Peter Cusching divennero volti familiari e arrivarono ad essere l'archetipo dei personaggi da loro interpretati. Tra gli anni '50 e i '70 C.Lee era sinonimo di Dracula e P.Cusching di Van Helsing...e nel film di cui parleremo oggi il caro Cusching interpreterà per l'ultima volta questo suo celebre alter-ego, e lo farà bene come sempre aveva fatto. A metà degli anni '70 la Hammer rischiò l'oblio e cercò una ricetta per riportare il pubblico, non più numeroso come prima, nella sale a vedere i suoi film. Decisero di contattare una grande compagnia di produzione di Hong Kong, la Studio Shaw…specializzata in un genere che arrivava a fare proseliti anche in Europa, i Kung fu movie. Ora si trattava di far "sposare" due cose che mai si erano neanche lontanamente parlate…si trattava di creare un animale mitologico metà horror e metà "botte da orbi". Presero la più usata e amata delle figure iconiche della Hammer..Dracula, e lo fecero "emigrare" in Cina. Arruolarono un regista cinese, Chang Chen (un vero mito per gli appassionati del Kung fu sul grande schermo) ed il britannico Roy Baker (un tuttofare a poco costo) e chiesero loro di fare il miracolo. Non possiamo dire che l'operazione riuscì del tutto…il film è godibile ma oggi quasi grottesco e caricaturale, può persino suscitare una risata per alcune ingenuità, ma per chi si bea di appuntiti canini e stranezze di celluloide…non può che essere l'ennesima chicca da gustare. Ci destabilizza nei primi fotogrammi vedere un sacerdote cinese in Transilvania al cospetto del nostro amato conte e ci destabilizza tanto, ma non tanto quanto non vedere Lee nei panni del vampiro…al suo posto un incipriatissimo John Forbes-Robertson, con più rossetto di una ballerina di burlesche e meno credibilità di una banconota da 7 euro, e tutto questo prima dei titoli di testa…!! Appena ripresi da questa scioccante visione comincia a chiarirsi meglio la vicenda…Dracula ora è il felice possessore di una grande pagoda (al posto del suo amato castello) ed è circondato da sette incartapecoriti cattivoni, con maschere d'oro e spadoni. Qui vediamo tutti i limiti degli effetti usati nel film…poche cose e fatte male, ma non è questa l'opera dove ci possiamo aspettare fantastiche trovate alla Rambaldi, budget inesistenti e fretta di finire hanno pur sempre il loro peso. Cusching-Van Helsing dovrà ancora una volta dare la caccia al suo acerrimo nemico…lo aiuteranno il figlio Leyland, Vanessa Buren, ricca avventuriera che finanzia la spedizione (per la cronaca è Julie Ege, Miss Norvegia) e soprattutto un fantastico Ching (David Chiang) e i suoi sette fratelli, maestri di Kung fu…spettacolari combattimenti con quei brutti vampiri dorati, che tutto sommato non sembrano poi così invincibili. Questo strano filone definito Kung fu horror ha avuto vita breve e pochissima fortuna, a riprova della difficoltà del soggetto. Per quanto ora quei vampiri e zombi saltellanti non possano più suscitare alcuna sensazione di paura o ansia, o alcune ridicolaggini siano veramente da denuncia, una sua ragione per essere visto il film la mantiene ancora. Buona è la fotografia, che a tratti usa i colori primari netti e abbondanti per sottolineare particolari passaggi topici del film (come si usava una volta virare in giallo o blu i primi horror muti per portare lo spettatore più alle soglie del sogno che lasciarlo a un semplice BW senz'anima) e buona è la narrazione. La trama corre via senza annoiare e quelle stranezze di cui abbiamo parlato sono quanto oggi ameremo in cineasti come Tarantino, diventano icone pop senza volerlo e ci ricordano che un film è pur sempre un racconto e mai un documentario…è e deve essere quello che non succede nella realtà, quello che la nostra mente riesce a creare con la fantasia e con quel po' di inverosimile che da linfa vitale ad una pellicola. La trama: Dall'università cinese, dove il professor Van Helsing si trova per alcune conferenze sul vampirismo, parte una spedizione capeggiata dallo stesso professore per debellare lo spirito di Dracula che cent'anni prima si era incarnato in un signorotto locale. Dure lotte e spettacolari duelli prima di un finale in crescendo…

domenica 7 luglio 2013

La strega in amore (D.Damiani,1966)


Anche l'insospettabile Damiano Damiani, quello della Piovra con Placido in tv e di tantissimi film mafio-polizieschi e (ahinoi!) di Alex l'ariete.., anche lui ha ceduto al nostro genere preferito. La strega in amore (titolo peggiore era davvero impossibile) è una particolarissima variazione sul tema horror-gotico italiano del tempo. Castelli e nobili assetati di sangue lasciano il campo ad una Roma contemporanea, quasi un documentario le iniziali riprese dell'EUR (quartiere di Roma) ancora poco congestionato da traffico e gente, ai palazzi patrizi e decaduti. Uno di questi è il set del nostro film…corridoi e grandi sale, persa la loro funzione di rappresentanza, diventano antri di streghe e gelidi come catacombe. Damiani non altera i canoni classici dell'horror, misteri e paure sono le stesse e le atmosfere funeree sono degne di Corman e dei suoi film tratti da Poe. Le figure femminili sono, come spesso accadeva, la pietra d'angolo dell'intero racconto. La sensualità della Schiaffino è "educata" ma non nascosta, e sin dalle prime battute, quando Consuelo legge le "colorite" memorie di suo marito, avvertiamo l'eros come filo conduttore di quel che vedremo in seguito. Tratto da "Aura" un breve romanzo di Carlos Fuentes, il film ne immortala le atmosfere e non perde molto di quel velo ammaliante che Fuentes ha dato al suo scritto. Nel libro (che consiglio altrettanto) come nel film il gioco di Aura e di Consuelo per "braccare" il giovane Sergio ha qualcosa di esotico e lontano…un rito antico che solo una donna e il suo essere strega, come nel film, può domare ed usare per ottenere l'oggetto dei suoi desideri. L'entrata in scena di Aura (Schiaffino) disorienta Sergio, che abbassa le difese e non si cura più della stranezza di quel posto e delle due "castellane". Un perfetto BW fotografa dialoghi e attori, tenendo l'attenzione e la curiosità di chi sta guardando il film ben sveglia ed acuta. Le musiche di Bacalov sono come il cigolio perfetto della porta di un antico maniero…sono il suono preciso che deve avere uno sguardo o lo stupore di un uomo. Si intuisce esattamente la potenzialità del racconto di Fuentes, di quanto il soggetto fosse adatto ad un film…quasi difficile da comprimere in un lungometraggio. I suoi 110min non permettono a Damiani di approfondire a dovere le intense figure femminili e ne rende ancora più marginali quelle maschili. Tutto si svolge tra perenni dialoghi e ammiccanti atmosfere, dove come una volpe da cacciare si aggira il protagonista, intrigato e curioso di svelare segreti e far entrare la luce in quel luogo tetro e forse, lui crede, anche nemico. Tutto sembra costruito dalle due donne e da quella casa per quasi punire la "leggerezza" di Sergio…il suo essere poco propenso ad approfondire i rapporti, superficiale e impudente dovrà vedersela con l'eterno e l'inspiegabile. Quando l'erotica danza di Aura, su un ritmo primordiale e tribale, preludio all'amore tra i due viene interrotta dall'arrivo di Gian Maria Volontè, che interpreta Fabrizio l'ex bibliotecario, ci rendiamo conto di quanto forte ci prendano le belle e gotiche immagini in movimento di questo film…che di horror ha il sapore ed è aspro al palato, che intimidisce chi guarda e lo stordisce con quel invadente e perenne odore di muffa e polvere. Fabrizio è ormai lo scarto di un esperimento, il rifiuto ingombrante da tenere nascosto…una razza inferiore per le elette donne che vivono in quella caverna/palazzo. Volontè va oltre la parte, non riesce ad essere comprimario di nessuno, tantomeno una figura secondaria, occupa eccessivamente la scena con uno smaccato e non celato desiderio di primeggiare…troppa personalità, bravissimo ma accentratore e inopportuno. La mano della censura è arrivata anche a "mutandare" il poster del film, dove una languida Aura lasciava intravedere la sua nudità sotto il vestito (così come effettivamente avviene nel film), ne esistono quindi due diverse versioni…censura che non ha potuto però fermare l'indubbio fascino che la Schiaffino dona al suo personaggio, che sprigiona malizia con consapevolezza e naturalezza. Un film e un finale che amerete aver visto, di indubbia bellezza e buona fattura. Chi ha corde capaci di risuonare con questo genere di film ne godrà  certamente, in barba ad una critica superficiale che ne ha snobbato l'esistenza, per andare a rendere onori a produzioni d'oltre oceano spesso di più bassa qualità. Un horror di confine, dove a far paura e sempre una pesante e  intrigante ambiguità… La trama: Uno scrittore squattrinato accetta un lavoro propostogli da una strana vedova che vive con Aura, che dice di essere sua figlia, la donna è una strega….