sabato 22 novembre 2014

Dracula cerca sangue di vergine...e morì di sete! - Andy Warhol's Blood of Dracula (P.Morrissey,1974)

Primi anni '30...In pieno ventennio fascista, il Conte Dracula decide di lasciare la sua Romania e cercare moglie (o meglio il suo sangue di vergine) nelle campagne di una, lui crede, cattolicissima Italia. In particolare è interessato alle figlie di una nobile ma decaduta famiglia. Queste riescono ad evitare il loro destino di vampire grazie alle "attenzioni particolari" del factotum (Dallessandro) del Marchese de Fiore  e il destino del Conte non sarà dei migliori.L'assurdo piacere che provoca la visione di certe "stranezze" cinematografiche, quell'appagante percezione di assistere a quanto di più lontano da un film canonico e un pò uguale a tutti è una ragione più che valida per vedere e scrivere di opere come il Dracula di Morrissey. Quei fotogrammi iniziali, che mostrano il caro Conte (Udo kier) truccarsi le labbra e tingersi vanitosamente i capelli, sono decadenti e magnifici come pochi. Cosi come giudicare con le solite parole e aspettative un film prodotto da Andy Warhol, girato da Paul Morrissey, con interpreti che vanno da Joe Dallessandro a Vittorio De Sica, dalla Vukotic a Silvia Dionisio, con un cameo di Polanski e la collaborazione alla regia di Margheriti è inutile quanto stupido. Potremmo criticare l'inespressività di Dallessandro (a cui era richiesto al massimo di mostrare il suo "famigerato" corpo) o bollare come troppo strampalate scelte come la macchina del conte che vaga per le campagne italiane con una bara sul tetto (ma non per chi ricorda Orlok e la sua bara sotto il braccio per le vie di Wisborg)...invece ci ritroviamo ad amare quello strano Conte rumeno, gracile, apatico e atipico. Ad apprezzare l'interpretazione di Kier, annoiato dal suo stato e alieno alle debolezze umane e allo stesso tempo cosi bisognoso del loro sangue. Il sesso è un orpello quasi inutile, è mostrato senza troppa ricercatezza e quel pò di politico che a tutti i costi si è voluto inserire nel film (il contadino Mario cita e auspica una rivoluzione d'Ottobre anche in Italia) è forzato e superficiale. Ma è esattamente questa splendida e voluta "frivolezza" la forza della pellicola. Anche in quelle scene dove il tanto sangue, a volte al limite dello splatter, ci ricorda che il film in fondo si richiama ad un romanzo gotic-horror, non si può non pensare più ad una performance artistica che ad un vero film. Belle le musiche e belle le attrici, audaci e credibili nel rappresentare la superficialità dei loro personaggi. Le malinconiche note di Gizzi contribuiscono, come tutto,  a fare di questo sperimentale Dracula un film che difficilmente invecchierà e che nessuno potrà mai rifare...un prodotto perfetto di quel genio di Morrisey e un oggetto degno della sua Factory. Senza dubbio il rischio per un film come questo di sfociare nella commedia, a cominciare dal titolo assurdo, è alto e non sempre si è riusciti ad evitarlo (o magari non si è voluto)...ma Warhol non ha speso male i suoi soldi, ha prodotto, se non propriamente un'opera d'arte, un apprezzabile e giocoso film fuori dai "generi".

domenica 2 novembre 2014

Il sangue delle vergini - Sangre de virgenes (E.Vieyra,1967)

Ofelia Marano Gutierrez è innamorata di un giovane nullatenente, ma viene costretta dai genitori aristocratici a sposare il cugino Edoardo Aguilar Morano. Lo sconosciuto spasimante vampirizza Ofelia che viene sepolta insieme al suo legittimo sposo. Molti anni dopo, a causa di un guasto all’auto (fatale e poco originale), alcuni giovani si fermano nella villa di Ofelia, disabitata da tempo. Raul, uno di loro, incontra nella notte il fantasma di Ofelia e fa l'amore con lei. Il mattino dopo le sue due amiche sono pallide ed esangui. Il commissario di polizia Martinez (interpretato da Emilio Vieyra, regista del film), i dottori e gli amici delle ragazze rifiutano di credere ai vampiri, ma Raul è di diverso avviso. Le vicende gli daranno ragione.
Un Vampire movie argentino di fine anni 60…delirante e morboso nelle intenzioni, banale e bruttino nei risultati. L’interessante in film come questo è da cercare, non tanto nella tecnica raffinata e men che meno nella recitazione degli interpreti (spesso alla loro prima e fortunatamente unica esperienza), ma in quel suo essere così diverso nei sapori e nelle atmosfere a cui siamo abituati, atipicità che lo allontana dai straconosciuti monti dei Carpazi e intinge il vampirismo classico nella salsa chimichurri, restituendoci un prodotto perlomeno originale. Detto questo, il film non si eleva mai da una mediocrità congenita e le “furbate” del regista non aiutano a salvarlo. Le generose forme delle attrici vengono usate a profusione e ci si spinge a scene softcore ruffiane e poco utili alla storia. Quel che possiamo salvare dopo la visione del film, quel poco, sono la bella animazione dei titoli iniziali e l’aver (forse senza volerlo) anticipato di un buon decennio i temi classici dei numerosissimi teen-horror americani che faranno ben più successo al botteghino di questo sgangherato film argentino. Di terrore, nella sue accezione classica, non ne abbiamo praticamente traccia, come non c’è traccia delle vergini del titolo (!) Qualche primo piano ai canini appuntiti e quel po’ di sangue che si intravede certo non basta a darci la giusta dose di tensione che cerchiamo in un horror e la scialba ambientazione in uno chalet andino, inadatto e ridicolo, ci gela definitivamente nel poter dare un minimo di attenzione alla pellicola. Quindi, a ben vedere, è solo il coraggio di un regista come Vieyra nel volersi provare in un genere come l’horror, pieno di pellicole modeste e di pochissime vette riconosciute, con i pochi pezzi a disposizione a dare un senso alla visione del film. Il suo “voler far cinema” consapevolmente di bassa qualità ma con quel sapore tipicamente trash che avrà la sua fortuna nei cineforum di appassionati e che, in un certo qual modo, aiuterà ad allenare i gusti di tanti. La visione è quindi da consigliare solo a consapevoli entusiasti e curiosi…chi ama un genere non può limitare ai soli capolavori il suo tempo libero, ma nel ricercare e nello scovare stranezze sta il vero divertimento. Per poi magari incappare e sorprendersi di registi come Vieyra o in “personaggi” (prima che regista) come il brasiliano José Mojica Marins (di cui magari parleremo) che fanno quel tipo di cinema adatto alle ore notturne delle tv e all’asincrono Ghezzi.

sabato 18 ottobre 2014

La notte dei morti viventi - The night of the living dead (G.Romero,1968)


In una cittadina della Pennsylvania i morti tornano in vita, affamati e cannibali. Chiusi in una fattoria ai margini del cimitero, alcuni cittadini cercano di sottrarsi all'orribile destino che li attende. Ma non sarà cosi facile passare la notte. Le loro differenti opinioni sul miglior modo per uscire da quella situazione e gli inevitabili scontri che ne conseguiranno aggiungeranno difficoltà all'impresa già disperata di difendersi dalle decine di zombie che circondano la casa.
...e un giorno Romero decise il futuro dell'horror. Dopo quei 90 minuti, usciti dalle sale, il gusto di chi si definiva appassionato del genere non fu mai più lo stesso. Allegorico e talmente tanto reale nel rappresentare il cuore rurale e cinico dell'America in quel finire dei '60 da poterlo credere più vero che assurdo. La produzione è di quelle poverissime, caratteristica quasi immancabile delle pietre miliari del cinema, e Romero utilizza ogni singolo dollaro (dei 100000 a disposizione per l'intero film) al meglio, quel suo B&W è contrastato ed evocativo. La musica è rumore e la tensione è claustrofobia. Non arriverà alla perfezione del nostro Bava e non sarebbe stato neanche opportuno per quelle che erano le sue intenzioni. Il girato doveva risultare sporco e quasi ripreso da un improvvisato operatore della domenica. Gli zombie erano già apparsi su qualche pellicola prima di quelli romeriani, di riti magici capaci di riportare in vita i morti e simili non ne mancavano certo, ma quel che il genio di Romero portò al mondo, e nessuno prima di lui, è quel retrogusto "sociale", un pungente sarcasmo sempre presente e sempre implacabile. Ogni singolo personaggio, dal leader nero alla famiglia tipica e tutti come loro, porta le sembianze di un vicino o di un collega, sono loro i "non morti" che "non vivono"...sembra suggerire Romero. Quel microcosmo di personaggi forzatamente costretti a vivere la stessa esperienza, a confrontarsi e a far uscire il meglio e soprattutto il peggio di loro stessi, assediati da quelli che sembrano essere più l'incarnazione delle loro paure che dei pericoli reali, rappresenta la speranza del genere umano che sa di dover affrontare i pericoli di una modernità ormai sfuggita ad ogni controllo e che non si dimostrerà essere alleata...ma nemica. Tutto questo e un finale che arriva come una rasoiata inaspettata, senza possibilità di interpretazioni diverse se non l'angoscia per una vittoria che sembra peggiore della disfatta, hanno fatto amare questo film e lo hanno portato ad essere seminale e imprescindibile pietra di paragone per tutti...horror e non. Se a questo film dovessimo (se proprio costretti) trovare un difetto sarebbe il dover riconoscere a Romero e ai suoi dondolanti mostri la colpa di aver per sempre ucciso il gusto gotico e hammeriano del fare horror. Le pagine dei polverosi romanzi ottocenteschi, che hanno fatto da canovaccio alle numerosissime produzioni di genere, rimarranno per sempre chiuse e dimenticate. I denti di un vampiro e il suo mantello nero, i castelli nascosti tra le brume e le cripte polverose dei manieri non solo non faranno più paura a nessuno...ma appariranno, da allora in poi,  ridicole e inopportune ai più. Opera prima di una bellezza oltre le opinioni personali e capace, allora come oggi, di logorare le sicurezze dello spettatore e sprofondarlo in una spaventosa quotidianità, piena di alienazioni e falsi miti di progresso.

sabato 4 ottobre 2014

Le Vergini di Dunwich - The Dunwich horror (D.Haller, 1970)

Nancy, studentessa della Miskatonic University di Arkram, fa la conoscenza con l’ambiguo Wilbur Whateley, discendente di una famiglia dedita a pratiche occulte ed intenzionato a riportare sulla Terra gli antichi e demoniaci padroni. Per fare ciò Wilbur deve sacrificare la ragazza in olocausto e rubare una copia del famigerato Nocronomicon, libro in cui sono contenuti i formulari d’evocazione. Il fratello gemello di Wilbur, progenie di creature non umane e terrificante per potere ed aspetto, attende nella soffitta della vecchia casa di famiglia di essere liberato e riportare il terrore tra gli abitanti di Dunwich, così come fecero i suoi avi anni prima. L’intervento del professor Armitage, esperto conoscitore del Necronomicon, impedisce che tutto si compia…ma a costo di molte vite e non prima di un finale sorprendente.
Adattamento cinematografico di un celebre e bel racconto breve di H.P. Lovecraft (L’orrore di Dunwich). Prodotto da Corman e diretto dal bravissimo scenografo Daniel Haller, che qui torna, dopo una buona esperienza con La morte dall’occhio di cristallo, dietro la macchina da presa e con risultati dignitosi. La vera difficoltà che regista, attori e produttore dovranno affrontare è la complicatissima impresa di riportare le atmosfere Lovecraftiane su pellicola…carpire gli odori e i colori non scritti nel racconto ma che sono gli ingredienti indispensabili per far riuscire la ricetta. Il film si discosta in diversi punti dal racconto, furbescamente inserisce quello che lo scrittore di Providence non aveva neanche mai pensato ma che la moda dei girati di quegli anni imponeva, di riti satanici basati sul sesso non ne abbiamo traccia nel libro e poco si adatterebbero allo stile di Lovecraft. La pellicola scorre piacevolmente e, cercando di soprassedere su una recitazione svogliata e che arriva alla nullità nel caso della protagonista femminile (Sandra Dee), si riesce a godere di alcune ottime trovate registiche; notevoli inquadrature in soggettiva portano tensione e attenzione ai livelli che un buon horror merita, l’uso di flash monocromatici e giochi di colore per cercare di portare la meraviglia e l’onirico dello scrivere di Lovecraft nel film ottengono, tutto sommato, il risultato desiderato. Particolare nota di merito la dobbiamo alla sigla iniziale…un cartone animato di estrema semplicità, ma che riesce a catturare attenzione e affascina con poco, facendo ben sperare per la visione del film. La buona regia di Haller la si riconosce anche e soprattutto quando, con stacchi repentini e obiettivi sporcati a dovere, vuole mostraci gli incubi della Dee. Una perfetta sintesi di immagini e musica e rumore che infastidendo affascinano e danno lustro ad un film che, tutto sommato avrebbe rischiato il dimenticatoio senza appello. Sorte che non riuscì ad evitare lo stesso Lovecraft, morto poverissimo come il “collega” Poe e ricomparso negli scaffali solo decenni dopo la sua morte per grazia di alcuni appassionati che ne ripubblicarono le opere. Il film, anche per questo suo omaggio ad uno scrittore sempre troppo stretto tra inutili paragoni e il cambiamento di mode veloci e poco credibili nei gusti dei lettori, merita una visione e che il film stimoli la curiosità e avvicini più persone alla lettura del racconto originale.

sabato 13 settembre 2014

Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde (J.S.Robertson,1920)

Il Dottor Henry Jekyll (John Barrymore) divide il suo tempo a Londra tra i poveri bisognosi di cure e la ricerca scientifica. Toccato dalle insinuazioni di Sir George Carew, padre della sua futura sposa Millicent, circa la vera natura della rettitudine umana, Jekyll decide di sperimentare in laboratorio una serie di droghe capaci di separare il bene dal male nella personalità di ciascun individuo. Ottenuta una particolare composizione chimica, la sperimenta su di sé, trasformandosi così in un uomo dominato dalla malvagità. Accecato dal successo, Jekyll ripete l’esperimento alternandosi più volte nella doppia identità, vivendo tra un comportamento irreprensibile e la più totale trasgressione: nei panni del sinistro Hyde, Jekyll frequenta i malfamati locali di Sono, rende schiava delle proprie voglie una giovane donna e si abbandona ad atti di violenza gratuita. Tuttavia gli effetti del siero diventano ben presto incontrollabili e Hyde finisce per prendere il sopravvento su Jekyll. 
Difficile prescindere da opere come queste. Settantasette minuti di arte cinematografica, dove si avverte il motivo stesso dell’invenzione delle “immagini in movimento”. Un film muto è un esperienza rivoluzionaria per noi abituati a colore, dialoghi sovrabbondanti e alla poca “fatica” che ci richiede la visione di un moderno film ultradefinito e ultracostoso. Da un attore, in un film come Il Dr. Jekyll e Mr. Hyde, si pretendeva la perfezione nel muovere anche un sopracciglio e l’uso del corpo come un codice non scritto per catturare l’attenzione dello spettatore, portandolo in quell’atmosfera propria dei racconti fantastici e delle fiabe. Oggi la “settima arte” (tranne rarissime eccezioni) ha perso quell’aura mistica che aveva nei primi decenni della sua invenzione, quando artisti-artigiani architettavano il cinema e azzardavano l’incredibile con i pochi mezzi esistenti…trasmettevano passione più che professionalità.
Escludendo un film andato perduto del genio Murnau (Der Januskopf) del 1920, questo di Robertson è probabilmente la prima rappresentazione cinematografica del celebre romanzo di Stevenson. Coevo del film di Murnau, il film di oggi è quanto di meglio il palato di un cinefilo appassionato di quell’horror sussurrato più che gridato possa desiderare. Godere dell’interpretazione di John Barrymore e poterlo ancora fare dopo quasi 100 anni dalla sua prima apparizione nei cinema è qualcosa di sublime. La forza e la bellezza del suo Hyde hanno qualcosa di eterno, di esemplare. Ovviamente se volessimo spingerci in una discussione riguardante l’annoso dilemma (la lotta dell’individuo tra il bene e il male insiti nella propria natura) che è alla base del libro e quindi del film non basterebbero certo le poche righe di questa recensione. Ci limitiamo ad apprezzare più gli aspetti tecnici e le sensazioni che un film come questo ci lascia dopo la visione, a stupirci nell’aver visto una sequenza dove un ragno gigante con la testa di Hyde tormenta i sonni di Jekyll e meravigliarci nel pensare che c’è più genio anche e sopratutto nelle semplici “trovate” che in qualunque magia di computer grafica. Consigliare la visione di un film come Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robertson è certamente superfluo e inutile, è una pietra miliare e in quanto tale deve essere rispettata…ma quando vi ritroverete ad averlo rivisto per 10 o più volte, a scoprirne i segreti più nascosti e godere della bellezza di alcuni singoli fotogrammi come fossero opere pittoriche…vi convincerete che, come Jekyll e Hyde, il cinema dovrebbe dividersi, mettere alti steccati, tra i tanti filmetti e i pochissimi capolavori.

giovedì 21 agosto 2014

La casa che grondava sangue - The house that dripped blood (P.Duffell,1970)

Un poliziotto sta indagando sulla misteriosa scomparsa di un vecchio attore di film horror dalla casa che aveva preso in affitto. Interrogato, l’agente immobiliare (che fatalmente si chiama Stoker!) racconta gli strani avvenimenti accorsi nel tempo agli abitanti di quella vecchia casa: uno scrittore ossessionato da uno dei suoi personaggi divenuto reale; due amici di vecchia data che trovano una loro ex-fiamma raffigurata in un museo delle cere dopo essere stata uccisa; una baby-sitter che scopre nella bambina a lei affidata i poteri malefici di una strega; e infine l’attore scomparso…trasformato in vampiro…
La casa che grondava sangue è, come si intuisce dalla trama, un film ad episodi. Quattro racconti ambientati in una tetra dimora nelle campagne inglesi. Le abitazioni, che siano castelli o monolocali in un vicolo secondario, rappresentano uno dei “fondamentali” nella filmografia horror classica e non solo. Sono l’esatta rappresentazione della “tana del mostro” o, ancora meglio, di quella “ragnatela” appiccicosa verso cui le vittime vengono inesorabilmente attirate e poi colpite. Poco sarebbe Dracula senza il suo castello, nulla sarebbero i Demoni di Raimi senza la loro “Casa” e Nicholson parrebbe un semplicissimo esagitato, quasi grottesco, senza i lunghi corridoi dell’Overlook. Furbescamente si usano le situazioni della vita quotidiana, e quindi porte da aprire e cantine polverose, per insinuare in chi guarda quel terrore “riconoscibile” e che potrebbe accadere di provare a chiunque tornando, la sera stessa, dopo la visione…a casa. Un racconto completamente “fantastico” otterrebbe solo parzialmente tale risultato e questo, scrittori e registi di genere, lo hanno sempre saputo. Nel film di Duffell (il regista) la casa è un contenitore per le brevi storie che ci racconta. Quelle mura e quel giardino rimangono immutati e fermi mentre uomini, donne e delitti ne risultano essere la linfa, o meglio il sangue, che scorre all’interno di essa per renderla viva. Gli episodi sono un crescendo di buone idee e interpretazioni, culmineranno nel quarto e migliore (per un cinefilo e appassionato di horror è una chicca ricolma di citazioni e ironia) dove una magnifica Ingrid Pitt e il suo famigerato neo daranno un senso al tempo investito per la visione del film. Certamente la presenza di Lee e Cushing nobilita l’intero cast, ma non verranno certo ricordati per questo film…mentre ammirare la Pitt nella sua prima esperienza con i canini appuntiti, prima del bellissimo Vampiri Amanti, è una gioia per gli occhi e lo spirito.

Nel complesso il film della Amicus è onesto e ben diretto. Iperclassico e sicuramente poco originale per argomenti e ambientazioni, ma godibile e un degno rappresentante di una idea tutta anglosassone dell’horror, sempre compassato ed elegante, che tanto si discosta da quella mediterranea e sanguigna tipica di spagnoli e italiani. Non mancate di notare quanto effetto faccia Jon Pertwee doppiato dal nostro Amendola…quasi un “Rambo contro i vampiri”. 

martedì 12 agosto 2014

L'orgia dei morti - La orgia de los muertos (J.L.Merino, 1973)

E’ una notte tempestosa quella in cui si svolge il funerale del barone Kauth Minauli. I suoi possedimenti, fra cui il castello di Skopje, vengono ereditati dal nipote Serge. Quando il giovane raggiunge il maniero sperduto nella lugubre atmosfera dei Carpazi, s’imbatte in strani personaggi, tra i quali spicca un geniale e pazzo scienziato che afferma di aver scoperto il modo di resuscitare i morti. Insospettito dal ritrovamento del corpo della cugina impiccata, Serge organizza una seduta spiritica per far luce sulla sua misteriosa morte…
Nel pensare il soggetto di un film horror, soprattutto di uno di quelli che avevano come massima aspirazione i cinema di provincia, cadere nel facile utilizzo dei tanti stereotipi del genere non è solo una cosa accidentale…ma spesso è voluta e consapevole. L’orgia dei morti è una vetrina di innumerevoli di questi stereotipi. Un inizio vagamente ispirato a Stoker, un pizzico di morti viventi e uno scienziato pazzo sono gli ingredienti per un polpettone di tante confortevoli e riconoscibili situazioni che aiutano l’appassionato a godere del film tanto quanto invece indignano il ricercatore/critico sempre in cerca di chissà quale originalità e peculiarità. J.L. Merino (il regista) ha a disposizione un cast italo-spagnolo (così come lo è la produzione) che non possiamo certo definire dei campioni della settima arte. Primo fra tutti il biondo protagonista (Stan Cooper), che lascia i set dei mediocri western e delle commedie nostrane ( Cooper all’anagrafe è Stevio Rosi) e si misura in questo suoi ultimo film con una voglia di recitare pari a quella che ha un condannato a morte di salire sul patibolo. Il resto degli attori non è certo di miglior livello e neanche i dialoghi sono abbastanza per giustificare la visione del film…ma un qualcosa di apprezzabile c’è, tanto buono da spiccare in tanta mediocrità. La scenografia (opera dello stesso Merino), questa è la vera sorpresa. Ottima e ben fotografata. L’atmosfera gotica e funeraria, il buon make-up dei non morti e qualche buona trovata del regista ci offrono una ragione per trascurare recitazione e banalità e terminare la visione del film. Ovviamente questo non basta per far apparire un capolavoro un film mediocre e se avrete la curiosità di vedere la pellicola di Merino preparatevi anche a dimenticarla presto. La parte dove il film è più una caricatura delle indagine di Holmes che horror è grottesco e seriamente irritante…personaggi come l’ispettore e il sindaco riusciranno a stento a non provocarvi una risata. Un film che merita una visione solo se siete divoratori di tutto quello che appartiene all’horror vintage o…parenti di uno degli interpreti.

sabato 2 agosto 2014

Le amanti di Dracula - Dracula has risen from the grave (F.Francis,1968)

Dopo aver interpretato Dracula il Vampiro del ’58 e Dracula, Principe delle tenebre del ’66 Christopher Lee recita, in questo ennesimo film della cara Hammer, il personaggio del famoso succhiasangue con una facilità disarmante e ogni suo muscolo facciale è ora perfettamente allenato. La Hammer, sotto richiesta (non rifiutabile) del distributore americano, sostituisce alla regia Terence Fischer con il suo direttore della fotografia Freddi Francis. Francis aveva già diretto alcuni horror che si ricordano più per le trovate bizzarre che per una particolare bravura nella direzione degli attori, ma in questo Le amanti di Dracula il suo impegno è notevolmente migliorato e il risultato è piacevole e forse anche superiore al primo sequel.
Tornato in vita, il Conte Dracula vampirizza due ragazze che si credevano scomparse ma dovrà fare i conti con uno straniero arrivato nel villaggio per far luce sull’accaduto: è un prete cattolico che si allea con un “eroe” ateo per sconfiggere le forze del male incarnate da Dracula.
Il film presenta alcune sequenze di indubbio valore, di quelle che marchiano l’intero lavoro e lo fanno ricordare nel tempo. La scena iniziale, dove una ragazza, con i classici e inconfondibili segni dei canini sul collo, viene trovata dal prete e dal suo chierichetto appesa li dove dovrebbe essere il batacchio della campana grande (bella e ben girata) o quella dell’ascesa dei due prelati al castello del conte con un crocefisso sulle spalle portato come uno spadone medievale sono di sicuro effetto e di una certa originalità…la stessa che troveremo del resto in tutto il film. Ma quello che più potrebbe “spiazzare” i puristi del primo Dracula è l’aver dato al Conte una caratterizzazione fin troppo “terrena”…è capace di provare vendetta, passione e quasi è più “umano” dei tanti stereotipati personaggi che incontreremo nel film. Si scontrerà con la chiesa e con la “ragione”, si lascerà sedurre dalle provocanti forme delle attrici (nel film l’erotismo è spinto ai limiti), quasi si innamorerà della Carlson e ne subirà persino la gelosia. Si proporrà addirittura come un antagonista, quasi degno di una certa ammirazione, dell’ingessato “vivere” vittoriano. Di buon livello la recitazione e, cosa che certamente ci aspettavamo, di fattura notevole è la fotografia…colori saturi che narrano bene i cambi di scena e donano alla pellicola il gusto tipicamente Hammer che ci piace tanto.

Un film ancora pieno di fascino e che mantiene una sua riconosciuta posizione di rilievo tra le tante opere vampiresche. Lee in stato di grazia e buona prova di tutto il cast. Da vedere assolutamente.

martedì 22 luglio 2014

Barbara, il mostro di Londra - Mr. Jekyll & Sister Hyde (R.W. Baker,1971)

Il dottor Jekyll sta lavorando al siero dell’eterna giovinezza. Allo scopo preleva ormoni dai cadaveri di giovani ragazze e se li inietta. Ben presto subisce una trasformazione e questa volta il classico Mr. Hyde è una donna: Barbara.
Capita a volte di amare devotamente dei film considerati minori, uno di quei film che, per molti,  ha il solo merito di allungare la lista dei lavori nella filmografia di un regista. Barbara, il mostro di Londra è uno di questi. Non un’opera sconosciuta, è pur sempre una delle migliori (a parer mio) produzioni della benemerita Hammer, ma non ha mai raggiunto i livelli riservati ai grandi classici…un film minore di ottima fattura, questa è la più diffusa opinione tra gli spocchiosi e monotoni critici cinematografici. Invece meriterebbe podi e allori, meriterebbe le proiezioni nelle lezioni di regia e le citazioni nelle dotte pagine dei libri sul cinema. Nulla, non uno sguardo, non un dialogo sono lasciati al caso e ogni personaggio, principale o minore, sarebbe degno di essere esso stesso il protagonista in altrettanti film. Lo sono i due profanatori di tombe, il becchino e tanti altri…ma prima di ogni altro lo è una Londra nebbiosa e cinica, quella dei bordelli e dei pub di fine ‘800, quella dei vicoli e dei misteri. Il soggetto è preso dal Jekyll e Hyde di Stevenson, ma stravolto e contaminato con i delitti di Whitechapel e Jack the Ripper. Il tutto a plasmare una sintesi di indubbio fascino e di inevitabile unicità. La pellicola scorre piacevolmente e senza annoiare, i delitti sono atroci ma nei limiti del “guardabile” e l’erotismo lega e condisce tutto il girato. Sarebbe certo stato difficile immaginare il contrario dopo aver letto il nome della protagonista femminile, quella Martine Beswick che l’Italia conoscerà meglio nei film con Franchi e Ingrassia (Ultimo tango a Zagarolo) ma che il mondo aveva già “ammirata” come una delle più seducenti Bond-girls (Dalla Russia con amore e Operazione Tuono). Il trucco, il geniale trucco, è sicuramente l’aver trovato due protagonisti (Ralph Bates e la Beswick) con una somiglianza quasi “familiare”. La “trasformazione” da Dottor Jekyll a Sister Hyde è credibile quanto intrigante e ne guadagna tutto il film, risultando un godibilissimo horror di una volta, che non si prende sul serio e utilizza l’incredibile per intrattenere più che per disorientare. Sdoppiamento della personalità, transessualità o meglio ancora androginia sono il colpo d’ariete alla cultura vittoriana, ma intesa come perfetta metafora degli sconvolgimenti sociali e sessuali che l’Inghilterra dei primi anni ’70 viveva giornalmente. Barbara, il mostro di Londra è un film da non perdere e da dissotterrare dalla catasta dei moltissimi film di genere dimenticati negli scaffali delle videoteche…di un’opera, a volte, si perdono le tracce per decisione sbagliata di chi si nasconde dietro le facili e “banali” citazioni dei soli blasonati film horror vintage e dimentica quanto di buono e, spesso, di notevole esista nei film minori. Ci sarebbe da stupirsi più e più volte nel rendersi conto di quanto i “capolavori” premiati debbano, per personaggi e atmosfere, ai loro “cugini” minori…esperimenti e parco giochi di tanti talentuosi quanto poco “agganciati” registi di genere. Da godere assolutamente in lingua originale, il perfetto inglese e la recitazione di tutti aumenta il valore generale dell’opera.

domenica 13 luglio 2014

Il maligno - The Devil's rain (R.Fuest,1975)

Le visioni su tela di Hieronymus Bosch accompagnano i titoli di testa…ma un inaspettato sole messicano ci spiazza già nelle prime scene del film. La cupezza che, forse ingenuamente, ci aspettavamo dopo quelle grottesche e apocalittiche figure di dannati e demoni è invece un accecante deserto e un villaggio abbandonato nel nulla. Già da questo intravediamo originalità e novità. Non sono le nebbie e i tetri manieri a fare da quinta al film, ma si tenta di attualizzare l’horror traghettandolo in una “diversamente spaventosa” contemporaneità, ottenendo un risultato, certamente meno suggestivo, ma che farà da ponte (siamo nel 1975) a tutto il filone del “horror rurale” americano degli anni a seguire. Anche il cast ci appare “diverso”. Leggere i nomi di “glorie” di Hollywood come Ida Lupino o dell’italianissimo (!) Borgnine sulla locandina di un film che rischiava, come è effettivamente accaduto, di rimanere al massimo tra i piccoli cult di genere, è quantomeno singolare. Vedere personaggi incappucciati in quel profondo sud americano ci rimanda alla memoria più l’odioso KKK che satana e seguaci, ma anche per questo il film guadagna in atmosfera. Nascono dalla “chiusura” mentale di chi abitava quei posti sia il razzismo del Klan che le varie sette religiose e sataniche che eccitavano e deviavano le menti delle comunità rurali. Da un processo e relativo rogo, che secoli prima aveva “giustiziato” il satanista Corbin, parte la storia del film. Questo è un essere demoniaco e apparentemente immortale che dopo 300 anni torna per riprendere un oggetto che è parte stessa del suo potere malvagio. E’ un libro che elenca il nome delle anime dannate che aveva consegnato al diavolo. Custode di quel libro, fin dai tempi del processo, è la famiglia Preston e, ora che Corbin è tornato, per tutti i componenti della famiglia la vita diventerà pericolosa e spaventosa. Per trasmettere questo “spavento” anche al pubblico in sala, Robert Fuest (il regista) si affida a bravissimi realizzatori di effetti speciali, una vera squadra, il cui compito è: lasciare sconvolti sulle loro poltrone al cinema quante più persone possibili. Per l’epoca e per i mezzi a disposizione il compito sembrava tanto difficile quanto ottimo fu poi il risultato. In particolare, il modo che Wenger e compagni escogitano per rappresentare la morte dei seguaci incappucciati di Corbin, letteralmente si sciolgono davanti ai nostri occhi, ha, non solo ottenuto l’effetto di sconvolgere il pubblico, ma provocato vere scene di panico e svenimenti nelle sale di programmazione. Il finale, ben 15 min di liquefazioni varie,  ha convinto e disturbato ma, compresi tanti futuri registi allora adolescenti, lo ricorderanno tutti. La Pioggia del Diavolo (questo il titolo originale) è, per l’America, il film dove il “satanismo”, già filone apprezzato due anni prima con L’esorcista, diventerà definitivamente una delle declinazione del nuovo horror di quei stranissimi e psichedelici anni ’70…anni dove si abbandoneranno del tutto i romanzi e i racconti gotici ottocenteschi per sostituirli, nella ricerca dei soggetti per un film, con il quotidiano, con le fobie e con le nuove paure dell’uomo di questo secolo.
Prima volta sullo schermo per un giovane John Travolta...piccola particina, niente di che.

sabato 28 giugno 2014

La tredicesima vergine -Die Schlangengrube und das Pendel (H.Reini,1967)

Lilian von Brabant (Karin Dor) e Roger Mont Elise (Lex Baker) invitati al castello del conte Frederic Regula (Christopher Lee) scoprono di essere discendenti di coloro che lo fecero giustiziare 35 anni prima. La condanna impedì al “vampiro” (si noti l’assonanza di Regula con Dracula) di nutrirsi del sangue della sua ultima vittima e ottenere così l’immortalità. I malcapitati, però, assistono alla resurrezione del conte che, dopo anni di oblio, cerca la vendetta e la vita eterna attraverso il sacrificio della tredicesima vergine…!
Nessuno può sottrarsi dall’avere un sussulto dopo quei primi minuti del film, dove una maschera, pesante e piena di chiodi, viene posta sul volto di un condannato a morte…che maledice i suoi accusatori prima di venire orrendamente giustiziato. Un sussulto non certo dovuto ad eccessi di sangue o ad effetti particolarmente sgradevoli ma all’evidente e certamente voluta somiglianza con uno dei nostri film-icona: La maschera del demonio. Da tanto parte questa discreta produzione tedesca che nelle intenzioni dei suoi finanziatori sarebbe dovuta essere la prima di una serie di horror teutonici, magari di un livello tale da battersela con americani e britannici. Le premesse, dobbiamo dirlo, c’erano tutte. Oltre i giusti omaggi al miglior horror, oltre la citazione-ossequio a Bava, anche l’aver basato sul racconto di Poe (Il pozzo e il pendolo) il film faceva ben sperare per il futuro e gli ottimi risultati sono effettivamente arrivati. Prima di ogni altra considerazione dobbiamo rendere il giusto omaggio a quella, che è quasi un bagaglio “naturale” dei tedeschi al cinema, straordinaria costruzione delle scene, a quell’atmosfera fantastica e onirica che è il vero carattere di questo bel film. Le nebbie, i colori saturi e le suggestioni fisiche che ci lascia, una per tutte, la scena della carrozza che attraversa il bosco prima del castello ha pochi altri rivali allo stesso livello. Sembra aver attualizzato quel che caratterizzò l’espressionismo tedesco tanti decenni prima, quel fascino palpabile che fu di Murnau e di Lang, di Wiene e di Leni. Fotogrammi eterni che non abbandonano gli occhi e i gusti di ogni serio appassionato. 
La tredicesima vergine è dunque un film che merita visione e considerazione. Ben recitato da Lee e compagni e con una storia che non annoia, magari non ha mai particolari vette di tensione ma è giustamente confezionato e onestamente diretto. Le segrete del castello, colme di macchine da tortura e teschi incastonati nelle pareti hanno il loro motivo di esistere e nella media gli effetti usati. Una di quelle macchine medievali sarebbe anche stata utile per far sapere al compositore delle musiche, e a chi eventualmente le ha scelte, quanto brutte le consideriamo. Degne al massimo della sigla iniziale di Derrick o Rex, completamente distaccate dal girato per ritmo e atmosfera, e dire che qualcuno paragona Peter Thomas (l’autore) al nostro Morricone…assolutamente detestabili. Il film è rimasto colpevolmente sconosciuto per alcuni decenni e qualora aveste intenzione di acquistarlo è assolutamente consigliato il DVD della Sinister, nella collana Horror d’essay, dove tra gli extra, oltre ad interviste e backstage, troverete la seducente voce di Cheistopher Lee che vi leggerà, in lingua, uno stralcio de Il pozzo e il pendolo di Poe…affascinante è dire poco.

domenica 22 giugno 2014

La stirpe dei vampiri - El Vampiro (F.Mèndez,1957)

Il conte ungherese Karol (Robles), un vampiro, acquista una proprietà nella Sierra Negra messicana e terrorizza gli abitanti del luogo. Per combattere la sua potenza diabolica, una giovane donna (Welter), ricorre a uno scienziato (Salazar) che in effetti riesce a incastrare il vampiro…non prima di numerosi colpi di scena e tante vittime.
Un film messicano, un film del 1957 e vampiri e pipistrelli. Potrebbe sembrare una scheda tipica di un filmetto che scopiazza le produzioni europee e americane..ma nulla è come sembra. Fernando Mendez, il regista, conosceva certamente l’horror girato prima del suo film, ma conosceva bene ed apprezzava principalmente i classici dei ’20 e dei ’30’…conosceva Murnau, Browning e le atmosfere di quei film eterni. Prova con pochi pesos a riprodurre quelle stesse sensazioni, le nebbie, le ragnatele…forse anche lo sguardo di Lugosi, e riesce, incredibilmente, con pochissimo, riesce. Ha l’occhio giusto, l’occhio appassionato e ha una delle intuizioni che determineranno per sempre la figura iconica del vampiro…due canini aguzzi e retrattili, luccicanti e pronti a colpire le sfortunate vittime. Nessuno prima di allora, certamente non il Dracula della Hammer (che verrà girato più di un anno dopo), presentava quella particolarità, ma dopo quell’apparizione nel film di Mendez nessun vampiro degno di questo nome potrà fare a meno di due canini affilati. Film come questo rimango sconosciuti, non hanno l’onore di essere citati nelle liste dei migliori horror classici..vengono considerati poco più che uno scherzo, ma poi, per ragioni diverse, se ne ritorna a parlare, si torna a visionarli con attenzione e non si tarda a riconoscerne il valore e la passione dei bravi registi e delle capaci maestranze. L’horror vintage è una delle migliori chiavi per appassionarsi al cinema…sono film fatti con poco, almeno la maggior parte, e certo non era per nulla scontato il loro responso al botteghino. Le storie originali erano pochissime e ancor meno gli attori capaci. La distribuzione e le sale erano ben lontane dalle luci della ribalta delle magnifiche produzioni di Hollywood (oggi come allora), ma, anche per questi limiti, lo sforzo per distinguersi era tanto  e, quando a questo si accompagnava anche il talento, al cinema arrivavano opere superiori…Nosferatu, La Mummia e Frankenstein, declinati in migliaia di film diversi e nello stesso tempo sempre uguali. Nello vostro scaffale, colmo di DVD "vampireschi", ha ragione di stare anche questo bel film messicano…gratifica il palato dell’appassionato.

sabato 14 giugno 2014

Asylum, la morte dietro il cancello (R. Ward Baker,1972)

Il Dott. Martin si reca al manicomio di Dunsmoor per essere assunto come assistente psichiatra. Durante il colloquio, il Dott. Rutherford, assistente del direttore Starr, lo informa che lo stesso è a sua volta impazzito, ed è ricoverato nell’ospedale come paziente. Martin dovrà scoprire, interrogando quattro dei pazienti del manicomio, chi di loro è il dottor Starr, affidandosi solo alle sue tecniche di interrogatorio e capacità di ascolto. I quattro pazienti lo coinvolgeranno  con i loro racconti incredibili e tra omicidi, corpi dissezionati e vestiti stregati tutto si svolgerà verso un finale colmo di colpi di scena. 
Magnifico film, soprattutto per sceneggiatura e soggetto, di produzione Amicus. Quattro episodi di notevole impatto e ben sviluppati. Capaci di procurare suspance e attenzione grazie ad un cast famoso e costoso. Peter Cusching, una giovane Charlotte Rampling e una sempre affascinante Britt Ekland farciscono, insieme ad altri bravi attori, queste piccole storie horror, dal respiro assolutamente gotico inglese e dove l’incredibile accade e l’ovvio è bandito. Non mancano le ingenuità e le sviste (ci accorgiamo con tenerezza della mano dell’attrezzista che muove l’arto mozzato in questione dimenticata nell’inquadratura) ma neanche le buone trovate, il tanto ottenuto con poco e un ritmo ben cadenzato contribuisco a farci godere della visione. Concepire un film ad episodi è sempre un rischio e l’annoiare, o magari anche infastidire, chi guarda non è un’ipotesi assurda. Quando quindi ci si trova di fronte ad un prodotto come questo, ben bilanciato e ben scritto, non dobbiamo dimenticare di aggiungere un plus al voto finale. Variegati, dicevamo, i temi di fondo dei diversi episodi. Nel primo, e forse più riuscito, dei quattro episodi si porta in scena un efferato uxoricidio. Il cadavere fatto a pezzi e nascosto in un congelatore riprenderà vita grazie a forze soprannaturali. Poco splatter e molto d’effetto…almeno per l’epoca. Nel secondo, quello dove troviamo sua maestà Cusching, un sarto caduto in disgrazia si trova a confezionare un abito descritto in uno strano e antico libro…capace di ridar vita ai morti e non solo. Terzo, e più scontato, quello dove una giovane e ricca donna (C.Rampling), in preda ad un gravissimo  sdoppiamento della personalità, seminerà il panico in famiglia. Il quarto e ultimo è quello che ci appare più inverosimile e quasi assurdo, ancora più assurdo dei precedenti. Un dottore, ormai preda del suo stesso genio, anima piccoli umanoidi con la forza del pensiero…preciso preciso il soggetto de La bambola del diavolo di Browning (1936). Un film articolato e ben girato, con una location indubbiamente d’effetto e con una classe che dobbiamo assolutamente riconoscere al bravo regista Roy Ward Baker, regista che aveva girato Vampiri Amanti nel 1970 e ottenuta con quel film la fama (almeno tra gli appassionati del genere) che meritava. Musiche di livello, magari fin troppo “pompose”…comunque adeguate. Asylum, la morte dietro il cancello è un titolo che meriterebbe una spolverata e la rinnovata attenzione di chi ama l’horror di un tempo…quello che parlava alle sensazioni e non cerca nel disgustarci l’unica ragione d’essere. 

domenica 8 giugno 2014

Il terrore viene dalla pioggia - The creeping flesh (F.Francis, 1973)

A seguito del ritrovamento di un gigantesco scheletro di umanoide in Nuova Guinea il professor Emanuel Hildern scopre che si tratta di un reperto ben più antico delle più antiche ossa umane e decide di studiarne la natura. In questo modo si rende conto del potere “rigenerante” che ha l’acqua su quelle spoglie e del terribile potere che quel corpo ricostituito e tornato alla vita ha sul prossimo e sull’ambiente che lo circonda: quei resti appartengono infatti al Genio Del Male. Decide così di isolarne il gene e di studiare un siero che possa immunizzare dal Male e per farlo mette in gioco ciò che ha di più caro: la vita di sua figlia Penelope…
Horror di buona fattura, con uno script ben composto e una discreta costruzione dei personaggi. Il cast e l’indubbia professionalità di maestranze e attori ci aiutano non poco ad attribuire ottimi voti a questo sci-gothic d’oltre manica. Peter Cusching e Cristopher Lee non sono certo una sorpresa e portano a termine i loro ruoli con la bravura che siamo abituati ad accordare loro da tempo. Il rischio di cadere nel noioso e nell’ovvio è scongiurato grazie a tanti piccoli trucchi di camera e di montaggio che riescono benissimo a tenere alta l’attenzione dello spettatore. L’horror nella sua accezione comune è assolutamente assente e l’odore di polveroso romanzo inglese prende forma nelle splendide ricostruzioni dei pub maleodoranti e nei costumi d’epoca. Di sottofondo gli intensi e contrastati rapporti familiari e un attacco ad una certa malata convinzione di alcuni uomini di scienza, capaci di immolare se stessi, più che per la scienza, per la fama ed il successo. Quest’illuminismo fuori controllo è messo a paragone con le “forze antiche” di esseri enormi e capaci di tornare in vita al solo contatto con l’acqua o la pioggia. La natura e le sue meravigliose possibilità schiacciano le beghe e l’ambizione di piccoli e mediocri medici. Manca quell’ultimo importante tassello, che avrebbe fatto del film un piccolo cult, una certa attenzione nel trucco e nella maschera quando nel finale si palesa il Genio del Male…davvero pochino per fantasia e realizzazione. Di notevole effetto è invece il quadro dipinto da Hildern (P.Cusching)…violento nel profondo e decisamente angosciante. Freddie Francis, il regista, è noto e arcinoto per essere stato il direttore della fotografia in vari film di Lynch (Elephant Man, Dune) e Cape Fear di Scorsese…qui è ancora nei soli panni di cineasta e non possiamo non  scorgere fin da subito l’occhio attento e capace che già lo contraddistingue e che ne farà la fortuna negli anni a seguire. Un diversamente horror per gli appassionati del genere.

sabato 31 maggio 2014

Horla, diario segreto di un pazzo - Diary of a Madman (R.Le Borg, 1963)

Non solo Poe, non solo Lovecraft…tra gli scritti “saccheggiati” da produttori e registi per rubare idee per pellicole di genere fantastico e horror dobbiamo annoverare anche un (bellissimo) racconto di Guy de Maupassant. Horla (letto alla francese) è il titolo di questo racconto e Horla, diario segreto di un pazzo è quello del film. Non è una riproposizione cinematografica fedele, anzi se ne discosta fortemente, ma basteranno due spunti ben scelti e l’aver furbescamente ritagliato il ruolo del protagonista esattamente per Price per imbastire un decoroso lungometraggio. Simon Cordier (Vincent Price), uomo di legge e scultore dilettante, visita in cella un uomo accusato di omicidio. Costui, in preda ad un raptus, lo attacca improvvisamente, spiegando di essere posseduto da uno spirito malvagio. Cordier, per difendersi, lo uccide involontariamente. Scosso dall’evento, comincia ad essere tormentato da incubi e visioni, nei quali vede anche moglie e figlio (morti, nella realtà). Il giorno in cui trova la testa della sua modella, uccisa e decapitata, nel suo studio si rende conto che le cose stanno mettendosi male. In realtà, lo spirito malvagio che possedeva l’omicida è ancora molto vicino…Quel che veramente viene a mancare nel confronto tra scritto e pellicola è l’atmosfera di una Francia fine XIX secolo che tanto aggiunge alle suggestive righe di Guy de Maupassant. Si nota lo sforzo, la ricerca del mobilio e degli oggetti di scena, si prova ma non si riesce. Price è tutto e può diventare chiunque ma non ha nulla della Parigi del libro, così come la pur brava Nancy Kovak (discreta attrice che lasciò la settima arte non appena diventata moglie di Zubin Metha) non è fino in fondo credibile nelle vesti della frivola e ambiziosa modella, personaggio inventato per il film e che soffre della superficialità nel costruirne carattere e storia. Ma la palma del “personaggio” meno riuscito va a quell’entità malvagia che nel libro sembra soffocare, dissanguare il protagonista, che ne cattura la volontà e da “corpo” all’odio. Nel film si conta su pochi e poco riusciti effetti speciali (imperdonabile il banale colore “verde spaziale” che evidenzia gli occhi di Pice vittima di Horla) per convincerci della presenza di chi non possiamo vedere e quel che dovrebbe essere una “altro da noi”, un corpo immateriale che si nutre del nostro odio, diventa poco più che un trucco da mago. Quel che invece cattura lo spettatore è l’espediente, nel film come nel libro, della voce narrante fuori scena. Siamo coscienti di ascoltare le parole di chi ha vissuto un’esperienza terribile e questa testimonianza rende “reale” la narrazione e interessante lo svolgersi della storia. La regia ha un timbro classico e questo ci aspettavamo dal prolifico Reginald Le Borg (quasi 70 film ha diretto prima di morire..!) e discreta la fotografia…son invece a dir poco odiose e insostenibili le musiche, indegne anche di una melensa operetta ruffiana e strappalacrime. 

sabato 24 maggio 2014

Il sangue del vampiro - Blood of Vampire (H.Cass,1958)

Vampiresco alternativo o, ancora meglio, un non-vampiresco. La figura del “nosferatu” è completamente assente per lasciar posto ad una variante scientifica del tema. Il Dottor Callistrato, interpretato dal bravissimo Donal Wolfit, è uno scienziato valente quanto pazzo. Dopo essere stato ucciso dai suoi concittadini che lo credevano un vampiro, con tanto di palo dritto nel cuore, torna a vivere grazie alle indicazioni che aveva lasciato al suo assistente. Il cuore di un “donatore a sua insaputa” lo riporterà in vita ma lo condannerà alla ricerca continua di sangue fresco per sostituirlo al suo. La sua posizione di direttore di un manicomio criminale gli permette di avere a disposizione cavie umane per studiare e reperire il sangue umano. Discreta produzione inglese, gotica e a tratti originale. Sempre giusta la recitazione e con non poche scene che un cinefilo entusiasta dell’horror non può far passare senza una giusta considerazione. Bella e brava Barbara Shelley, ennesima carta vincente del film. Nella versione non-tagliata (quindi quella non distribuita in Italia) il film presenta scene di sadismo non comune per l’epoca e che anticipa, e anticipa di buoni 20anni, alcuni temi cari, udite udite, addirittura al nazisploitation. Location di notevole effetto e atmosfera umida e pesante, così come riuscite sono le scene dove famelici cani da guardia banchettano con gli sfortunati che capitano in quel cortile di prigione. Curata e d’effetto la fotografia e tutto sommato buona anche la direzione di Cass…film singolare, produzione Hammer, che vale certo una visione.

sabato 17 maggio 2014

La morte dall'occhio di cristallo - Die, monster, die! (D.Haller,1965)

L’American International Pictures (AIP) è la gloriosa casa di produzione statunitense che, anche grazie ai lavori di Roger Corman tratti dai romanzi di Poe, riuscì a ritagliarsi il ruolo di concorrente dell’inglese Hammer in quei tanto prolifici anni ’60. Corman era il regista di punta e Daniel Haller il suo scenografo (Il pozzo e il pendolo è opera sua). Haller si cimentò anche dietro la macchina da presa e quando Corman litigò con la AIP ne prese (addirittura) il posto. Uno dei film in cui firmò da regista è La morte dall’occhio di cristallo (il titolo originale è ben più evocativo: Die, Monster, die!) Dopo aver praticamente esaurito la “vena aurea” che i racconti di Poe e la direzione di Corman rappresentarono per la AIP, si cercò (senza troppa fantasia) ispirazione nei lavori di quello che è considerato il successore dello stesso Poe. Parliamo di Howard Phillips Lovecraft e dei suoi racconti tanto cari agli appassionati di fantascienza. Uno di questi Il colore venuto dallo spazio è il soggetto del film di cui stiamo parlando. Una delle caratteristiche dello scrivere di Lovecraft è il saper dosare con perizia (ma certo nulla rispetto all’inarrivabile Poe) l’horror e l’onirico e l’aver creato atmosfere che precorreranno i tanti Sci-Fi di successo. L’esperienza da sceneggiatore di Haller gli permise di riportare quelle “sensazioni lovecraftiane” sulla pellicola e sicuramente è una delle cose che apprezzeremo di più durante la visione. Bella fotografia, colori saturi e discreti effetti riescono a catturare la nostra attenzione fino al termine della pellicola senza stancarci. Tutto questo niente potrebbe senza la presenza scenica di quello che è tra i più famosi interpreti dell’horror di sempre, si parla di quel Boris Karloff che fin dal suo Frankenstein del ’31 fu la miglior maschera, la più adatta, l’archetipo stesso dell’attore nei film "dell'orrore". Quando Karloff interpreterà il vecchio Nahum Witley ne La morte dall’occhi di cristallo è ormai il 1965 e la sua carriera è praticamente alla fine. La sua malattia lo costringe alla quasi immobilità e forse è questo il motivo per cui anche nel film il personaggio passa quasi la totalità del tempo su una sedia a rotelle. Ma a Karloff basta muovere una ruga, un sopracciglio e uno sguardo per fare un film. Tanta bravura è ancora più evidente quando è messa a confronto con l’imbarazzante recitazione di Nick Adams (sembra passare li per caso in ogni singola posa) e quasi ci distrae dallo spaventarci per il volto deforme della signora Witley o per le creature mutanti. Il film rimane solido e ben girato, con un buon ritmo e con quel “lo facciamo bello con poco” che distingue sempre le produzioni AIP. La trama: L’arrivo del giovane americano Steve Reinhart nella cittadina inglese di Arkham viene accolto con sospetto e diffidenza. Steve si trova lì perché chiamato da Susan Witley, discendente di un uomo che aveva nomea di essere uno stregone, e figlia del vecchio Nauhm (Boris Karloff), scontroso e solitario custode di un castello su cui sembra aleggiare la morte, Il giovane, nonostante la madre di Susan cerchi di dissuaderlo, si mette ad indagare e scopre che nel maniero è conservato il frammento di un meteorite le cui radiazioni provocano alterazioni genetiche sulle piante, sugli animali e … sugli uomini. Chi è vittima della misteriosa radioattività subisce una orrenda mutazione prima di conoscere, tra indescrivibili sofferenze, una morte per autoconsumazione. Questa è la sorte che tocca a coloro che si avventurano nel regno di Nauhm…