Ancora una volta il castello di Arsoli (Roma) è teatro per un gotico italiano, ancora una volta quelle torri merlate e quelle mura sono protagoniste al pari della Steele e di G.Ardisson. Margheriti è consapevole della pochezza del soggetto che ha per le mani (opera del sempre bravo Gastaldi, ma che questa volta crede pochissimo ad una storia che senza il bel finale risulterebbe quasi banale) e rimedia dove e come può con tanto di quel mestiere da far impallidire nomi e registelli ben più noti al grande pubblico. Fotografia e uso della camera coccolano gli occhi dell’appassionato, ricordandogli il perché della sua passione per la settima arte. Tutto tanto bello che dimentichiamo una recitazione forzata e spesso di sola apparenza. Colpevoli di questo sono principalmente gli attori maschietti, che portano pochissimo ad una storia evidentemente scritta e pensata per le signore del cast. Di questo film si è da sempre apprezzata l’accuratissima ambientazione medievale (siamo sul finire del XV sec.) e di questo ne abbiamo prova in moltissime sequenze, una tra tutte il funerale del vecchio Conte…perfetta alla pari di un trattato di storia. Quell’atmosfera avvolge chi guarda e coinvolge straordinariamente, portandoci per mano nei tanti passaggi segreti e per le stanze/covo di quei personaggi assolutamente adatti a rappresentare quell’età cinica e cupa, dove la morte era decisa dai signori dei castelli e la peste era la pena per qualche colpa da espiare. Brava la Steele, icona di se stessa, ma non è lei il personaggio più importante…per una volta il titolo italiano (e succede raramente) ci aiuta a capire chi meglio interpreta quel copione, sono il lunghi capelli delle protagoniste, della Steele e della Zalewska. Le due donne li accarezzano in continuazione, quasi un gesto compulsivo, quasi li avessero li pronti a trasformarsi nei serpenti della Medusa, in un abbraccio fatale, metafora perfetta della ineluttabilità della morte. I capelli e le fiamme che purificano e condannano hanno la stessa funzione, sono cose da strega, cose da donna. Donne che si vendicano dell’arroganza maschile, che tornano in vita pur di farla pagare all’infoiato Kurt, portandolo alla pazzia e ad una fine terribile. L’uso di un suggestivo B/N aiuta a dipingere quelle scene fatte di luci e tante ombre, un contrasto vicino all’espressionismo tedesco e a tratti epico quanto il miglior Lang, fanno del film uno dei più rappresentativi del sottogenere gotic. Tante le citazioni che Margheriti incastona nel suo film…streghe al rogo, scheletri che tornano alla vita (effetto ben meno riuscito del precedente baviano) e l’uso di nomi arcinoti agli appassionati (il cognome della strega e madre della Steele è Karnestein…come nel romanzo di La Fanu) non infastidiscono l’appassionato, ma, quando sono così sapientemente dosati, lo rassicurano e lo appagano. Questa la trama: Adele Kanestein, accusata dell’omicidio del marito, viene condannata a pagare le sue colpe su un rogo purificatore, dal quale lancia una maledizione su tutto il paese, che verrà flagellato dalla paste e su i suoi aguzzini. La figlia Elizabeth viene fatta sposare co conte Kurt, il vero assassino, che eredita castello e averi e progetta di far fuori anche la novella sposa. Ma un castello senza fantasmi non s’è mai visto in un film gotico, ed ecco che spunta una bellissima donna (B.Steele) che prima seduce e poi spinge alla follia il pessimo Kurt. I lunghi capelli della morte è un film molto importante per la filmografia horror italiana, almeno di quella dei primi anni del genere. Rappresenta la conferma della bravura di Margheriti, dopo il successo di Danza Macabra, lo consacra abilissimo manipolatore di atmosfere e sapiente cuciniere di sequenze.
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