giovedì 27 marzo 2014

5 bambole per la luna d'agosto (M.Bava, 1970)

Colori carichi, saturati ad arte e pop quanto un quadro di Roy Linchtenstein. Forse neanche di un vero film dovremo parlare, forse Bava non voleva girare un lungometraggio nel senso canonico del termine, ma certamente ha voluto e ha dato sfoggio della sua bravura. La trama è secondaria e superflua, ci perdiamo nell’estasiarci per quei frame tanto ben concepiti da risultare indifferenti a critiche e opinioni. Da Bava ci lasciamo convincere a giocare con lui, a scherzare con assassini e vittime e con lo stesso genere thriller/horror, o addirittura gli permettiamo un leggero dileggio quando ci spiazza con l’ironia e ci deride con le sue trovate così tanto “facilmente” geniali (vedrete cosa riesce a fare con biglie di vetro e una scala !!!). Ci presenta i protagonisti del suo film fermandoli come in un fumetto o un fotoromanzo, singoli fotogrammi bastano da soli a svelare un carattere, piccoli indizi che ci aiutano a comprendere. Nel film, l’amato regista sanremese, mette in scena una sequela di delitti che risultano essere quasi la scusa puerile per fare scuola di cinema. Inventa persino le inquadrature migliori (e poi tutti faranno come lui) per valorizzare il già notevole corpo della Fenech e tutto con tanta di quella ironia che gli perdoniamo anche il paradossale (che non manca) e quasi ci convince a pensare che il cinema, quando vuole solo essere la perfetta rappresentazione della realtà, arrivi ad essere quasi un inutile esercizio…uno sterile documentario, una copia, un volgare falso. Implacabile nel mettere alla berlina una borghesia cinica e arrogante…tanto quanto Bunuel. Avvincente quasi quanto le pagine della Christie e dei suoi “piccoli indiani” (è fin troppo evidente il richiamo al romanzo) e mai noioso, mai banale, mai meno di bello. Per molti è un film minore e secondario nella filmografia baviana, ma, anche ammettendo per assurdo l'esistenza di questi film secondari, l’errore vero è farne una classifica unica. Come paragonare il colore perfetto di questo lavoro al perfetto B/N dei primi film? Come non riconoscere in questo un degno appetizer di quel monumento allo slasher-movie (Reazione a catena) che, solo l’anno successivo, vedrà la luce sempre per mano del nostro Bava? Come non riconoscere tutti i suoi film come teste di serie di altrettanti gironi? Pietre di paragone impossibili da paragonare. Torniamo al film scrivendone la trama: Frick Hangel, inventore di una nuova resina sintetica, è invitato con la moglie su un’isola deserta, nella villa di un industriale interessato alla sua scoperta. Una catena di misteriosi omicidi sterminerà uno ad uno tutti gli ospiti di quella villa su quella piccola e deserta isola. Sconosciuto è il motivo e naturalmente sconosciuto è l’assassino fino alle ultime inquadrature. Nel cast, oltre la citata Fenech, Ira von Furstenberg, William Berger, Howard Ross e una giovanissima Ely Galleani. Anche la durata del film è perfetta, 80 "educati" minuti che non stancano e risultano giusti e più che adeguati per sviluppare tutto il “gioco baviano”…Bava vuol bene al suo pubblico. 5 bambole per la luna d’agosto è sublime, ammaliante, un film di raffinatissima fattura, contiene diverse scene da antologia (cadaveri incelofanati e penzolanti tra i quarti di bue nel frigo della villa con in sottofondo una musica da giostra di paese !!! ) una colonna sonora corretta e un finale umoristico e meravigliosamente baviano…davvero da non perdere. Una trama magari debole ma una vera gioia per gli occhi.

venerdì 21 marzo 2014

I lunghi capelli della morte (A.Margheriti,1964)

Ancora una volta il castello di Arsoli (Roma) è teatro per un gotico italiano, ancora una volta quelle torri merlate e quelle mura sono protagoniste al pari della Steele e di G.Ardisson. Margheriti è consapevole della pochezza del soggetto che ha per le mani (opera del sempre bravo Gastaldi, ma che questa volta crede pochissimo ad una storia che senza il bel finale risulterebbe quasi banale) e rimedia dove e come può con tanto di quel mestiere da far impallidire nomi e registelli ben più noti al grande pubblico. Fotografia e uso della camera coccolano gli occhi dell’appassionato, ricordandogli il perché della sua passione per la settima arte. Tutto tanto bello che dimentichiamo una recitazione forzata e spesso di sola apparenza. Colpevoli di questo sono principalmente gli attori maschietti, che portano pochissimo ad una storia evidentemente scritta e pensata per le signore del cast. Di questo film si è da sempre apprezzata l’accuratissima ambientazione medievale (siamo sul finire del XV sec.) e di questo ne abbiamo prova in moltissime sequenze, una tra tutte il funerale del vecchio Conte…perfetta alla pari di un trattato di storia. Quell’atmosfera avvolge chi guarda e coinvolge straordinariamente, portandoci per mano nei tanti passaggi segreti e per le stanze/covo di quei personaggi assolutamente adatti a rappresentare quell’età cinica e cupa, dove la morte era decisa dai signori dei castelli e la peste era la pena per qualche colpa da espiare. Brava la Steele, icona di se stessa, ma non è lei il personaggio più importante…per una volta il titolo italiano (e succede raramente) ci aiuta a capire chi meglio interpreta quel copione, sono il lunghi capelli delle protagoniste, della Steele e della Zalewska. Le due donne li accarezzano in continuazione, quasi un gesto compulsivo, quasi li avessero li pronti a trasformarsi nei serpenti della Medusa, in un abbraccio fatale, metafora perfetta della ineluttabilità della morte. I capelli e le fiamme che purificano e condannano hanno la stessa funzione, sono cose da strega, cose da donna. Donne che si vendicano dell’arroganza maschile, che tornano in vita pur di farla pagare all’infoiato Kurt, portandolo alla pazzia e ad una fine terribile. L’uso di un suggestivo B/N aiuta a dipingere quelle scene fatte di luci e tante ombre, un contrasto vicino all’espressionismo tedesco e a tratti epico quanto il miglior Lang, fanno del film uno dei più rappresentativi del sottogenere gotic. Tante le citazioni che Margheriti incastona nel suo film…streghe al rogo, scheletri che tornano alla vita (effetto ben meno riuscito del precedente baviano) e l’uso di nomi arcinoti agli appassionati (il cognome della strega e madre della Steele è Karnestein…come nel romanzo di La Fanu) non infastidiscono l’appassionato, ma, quando sono così  sapientemente dosati, lo rassicurano e lo appagano. Questa la trama: Adele Kanestein, accusata dell’omicidio del marito, viene condannata a pagare le sue colpe su un rogo purificatore, dal quale lancia una maledizione su tutto il paese, che verrà flagellato dalla paste e su i suoi aguzzini. La figlia Elizabeth viene fatta sposare co conte Kurt, il vero assassino, che eredita castello e averi e progetta di far fuori anche la novella sposa. Ma un castello senza fantasmi non s’è mai visto in un film gotico, ed ecco che spunta una bellissima donna (B.Steele) che prima seduce e poi spinge alla follia il pessimo Kurt. I lunghi capelli della morte è un film molto importante per la filmografia horror italiana, almeno di quella dei primi anni del genere. Rappresenta la conferma della bravura di Margheriti, dopo il successo di Danza Macabra, lo consacra abilissimo manipolatore di atmosfere e sapiente cuciniere di sequenze.

giovedì 13 marzo 2014

Il pozzo di Satana - Kaidan semushi otoko (H.Sato, 1965)

Uno di quelli che hanno visto in pochi, di quelli che difficilmente troverete in rete. Questo è un film che un collezionista tiene stretto e che un cinefilo “deve” aver visto. La ragione di tanto mistero?…facile a dirsi: è un horror gotico del 1965, in puro stile italiano ma con attori e produzione giapponese (se non l’unico nel suo genere certamente è una rarità). Si intravede Margheriti, si respira Bava. C’è una grande casa, fantasmi e un mistero…cosa chiedere di più? Diciamolo subito…non è una capolavoro per trama e ritmo, ma il meraviglioso bianco e nero e una fotografia che definirei sublime bastano già a consigliarne la visione. Chi è cresciuto a pane e  film della Hammer o chi si pavoneggia nel riconoscere da un solo fotogramma una pellicola horror vintage griderà al plagio ad ogni cambio di inquadratura: Questo era in Sepolto vivo di Corman! Questa inquadratura è pari quella di Freda ne I Vampiri!…e avanti così. Passiamo oltre e perdoniamo le porte che si aprono da sole o il “tenero” e “ingenuo” filo nero che troppo evidentemente tiene sospeso il finto corvo che attacca la protagonista e ci “divertiamo” a sorprenderci nel vedere nel ruolo che sicuramente sarebbe stato della Steele dei tratti così tanto esotici per quelle atmosfere gotiche. Una recitazione così diversa, una gestualità marcata ed eccessiva che a noi, superficiali e occidentali, può sembrare a tratti grottesca, ma che da un sapore tutto particolare all’opera. Capiamo dai gesti e dalle “smorfie” degli attori che ci deve essere sfuggito l’ennesimo riferimento a qualche simbolismo caro alla cultura nipponica e troppo facilmente affermiamo che quella recitazione apparentemente mono espressiva, affine alle maschere del teatro Kabuki (vedi la scena della medium posseduta dallo spirito del defunto marito della protagonista), ci lascia perplessi…assolutamente perplessi. Il doppiaggio è di buona fattura, ma non riesce, e mai potrebbe riuscirci, ad allinearsi a quel particolare movimento del capo o a quel velocissimo e sostanziale sguardo. Ma una cosa, occidente o oriente che sia, non cambia mai…quelle tre o quattro circostanze base che fanno sempre, sempre paura. Come diceva Bava in una sua famosa intervista, una tenda che si muove, un ululato sinistro, il colpo secco di una porta che sbatte o il buio sono le cose per cui sempre si avrà paura…quasi fossero le giuste scintille per far divampare il fuoco del vero panico. Di queste il film in questione ne fa un uso spropositato, sempre avvertiamo la presenza sinistra dietro una porta, sempre l’attrice protagonista sentirà ululati di vento o di spettri e tutto questo, se pur con tanta difficoltà per i nostri smaliziati occhi, provoca spavento. Leggermente colpito dai rimontaggi nella distribuzione italiana e ridicolmente (ma era vizio comune) farcito di nomi americanizzati per interpreti e maestranze il film gode di una buona fama tra i cult del genere, ma prima di ogni altra cosa è pieno di buone ragioni per meritare una visione…non fosse altro per la certezza che quest’opera non avrà mai “l’onore” di una distribuzione televisiva, fosse anche nel pieno della notte, in un canale di provincia. Questa la trama: Una vedova va nella villa dove il marito aveva iniziato a dare segni di follia e che dopo la morte di quest’ultimo ha ereditato. Scoprirà che è infestata da uno spettro che possiede il servitore gobbo. Una maledizione circonda quella casa, legata alle vicende del suo primo proprietario.

sabato 8 marzo 2014

Amanti d'oltretomba - Nightmare Castle (M.Caiano, 1965)

C’è Barbara Steele, c’è il tema del “doppio” (anche in questo film la Steele interpreta due personaggi) e non mancano antiche magioni, fantasmi e una famiglia blasonata intorno a cui ruota l’intera vicenda. Difficile quindi non catalogare Amanti d’oltretomba tra i più classici horror-gotici italiani. E tra tutti è tra quelli riconducibili a quel breve periodo che va tra il 1956, anno di produzione del celebre I Vampiri di Freda, e il 1966 con Un Angelo per Satana di Mastrocinque. Dieci anni appena che rimarranno fondamenta di tutto il cinema del terrore a venire, in patria e ben oltre i nostri confini. Quel che lo distingue è un accenno ad embrionali atmosfere oniriche che poi vedranno la loro completa maturità negli incubi di Argento. Di contro la recitazione e la conduzione degli attori da parte di Caiano è fortemente classica se non addirittura affine al melodramma più tipico. Scorrendone la trama, come tra poco faremo, ci accorgeremo che tra tutti i “richiami” che Caiano ha inserito nel suo film il più eclatante e per certi versi palese è al regista e ad un film che dal tema del “doppio” ha ricavato giusta fama e popolarità…parliamo ovviamente di Hitchcock e di Vertigo. Nell’accompagnare la Steele verso il suo sdoppiarsi e impazzire scorgiamo spesso la chioma biondissima della Novak e i suoi occhi smarriti. Questa dunque la trama del film: Un avido scienziato per amore della scienza, trascura la ricca e bella moglie, prontamente consolata dal giardiniere. I due amanti vengono beccati da l marito, che li uccide strappando loro i cuori, conservandoli poi come trofeo all’interno di una teca. Per mettere le mani sull’eredità della consorte, il vedovo dovrà sedurne la sorella. Purtroppo quest’ultima è manovrata dall’aldilà dai due spiriti, del giardiniere e della prima moglie, assetati di vendetta. Ora, riguardo a come nel film il marito/scienziato decide di uccidere i due amanti si apre una questione che al momento dell’uscita del film stesso lo etichettò tra i più violenti, espliciti e assolutamente da vietare ai minori che mai cinema italico vide. Egli si accanisce sui corpi, violenta la donna davanti agli occhi dell’amante, li tortura entrambi con un sadismo che neanche Corman e la Hammer portarono mai sullo schermo (in quei lavori d'oltremanica la tortura e la violenza vengo sempre e comunque edulcorate a dovere)…ma Caiano osa, e riprova ne sia questo passaggio del copione dove il regista fa parlare il marito/scienziato in questo modo: Certo che ti ammazzerò, sgualdrina, te e il tuo sporco amico, ma la morte deve venire dopo che avrò strappato ai vostri corpi tutte le sofferenze che un essere umano possa sopportare. E voi non immaginate quanto tempo ci vuole per morire di dolore… Amanti d’oltretomba è un film tra i più classici del genere, ma lo si deve apprezzare, se non per l’originalità della storia, che è davvero scarsa, almeno e sicuramente per la presenza di alcune tematiche, il sadismo e alcuni dialoghi moderni ed estremi per l’epoca, che saranno poi imprescindibili quando il gusto degli amanti dell’horror muterà per sempre, e per alcuni mutò a tal punto che si fece irretire da “devianze” al limite dell’accettabile, si vedano le numerose produzioni nazisploitation che inquinarono il nostro cinema per tutti gli anni ’70. Altre curiosità, secondarie per molti ma non per i cinefili incalliti, sono le ingegnose trovate del dottor Arrowsmith (il sadico marito) che per uccidere tutte le sue malcapitate vittime escogita la qualunque...si veda per tutte il marchingegno che per errore ucciderà l’innocente maggiordomo. L’attore che interpreta questo Archimede Pitagorico del delitto è una vecchia conoscenza per il nostro cinema, è quel Paul Muller che, vedi il caso, recitò nel citato I vampiri del 1956 per poi arrivare a lavorare in questo lungometraggio e, quindi, ad iniziare e chiudere il gotico italiano (per poi approdare ad essere l’interprete del Megadirettore Galattico nei film con Fantozzi). Musiche stanche e di maniera di Morricone e un’ottima fotografia completano il tutto.

domenica 2 marzo 2014

Martin - Wampyr (G.A.Romero, 1977)

Come per tanti altri film d’importazione anche per il Martin di Romero si cercò, al momento della distribuzione nel nostro paese, di rendere il tutto più compatibile ai gusti italiani, si intervenne sul montaggio (quello distribuito in Italia, con il titolo cambiato in Wampyr, perde buoni 10min rispetto al girato originale) e si affidarono le musiche ai nostrani Goblin…ormai famosi dopo le collaborazioni con Argento. La visione del Director’s Cut (di quello parleremo) è indubbiamente la scelta migliore da fare, non perché l’altro risulti snaturato e lontano dalla volontà di Romero, ma per una migliore fluidità e coerenza nel racconto. Rilettura in chiave moderna del mito del vampiro. Non più castelli e lunghi mantelli, lugubri saloni o cripte petrose…il “vampiro” del film è Martin, diciottenne americano, serial killer e necrofilo, gelido e dallo sguardo assente, figlio perfetto dell’alienata società dei consumi e metafora del suo stesso disfacimento..o forse è la reincarnazione di un vero vampiro? Romero vuole spiazzarci, farci illudere di aver capito per poi deludere le nostre sicurezze, e questo con tanta maestria che, nonostante la lentezza del film, ci risulterà facile e avvincente anche la visione di una così particolare opera. Gelida quanto il castello del Dracula di Browning è la metropoli, personaggi strani e più mostruosi di qualsiasi Nosferatu si aggirano per quei boschi di acciaio e inquinamento. Martin non ha paura dei crocifissi e vive alla luce del sole, ma dei bellissimi flash-back in b/n sembrano farci intendere che il ragazzo abbia almeno cento anni (e il dubbio rimane). Della sua natura vampiresca è convinto suo cugino Cuda, lo è perché Martin è strano, perché Martin è socialmente inadeguato e soprattutto perché la sua stranezza lo rende troppo libero ai suoi occhi. Bravo, bravissimo è John Amplas che interpreta Martin, quasi la rappresentazione esatta della marionetta di se stesso, di poche parole e perennemente imbambolato…lo disegna succube delle sue pulsioni sessuali e della anacronistica convinzione della sua famiglia che, piuttosto che ritenerlo un sociopatico, preferisce semplificare etichettandolo come vampiro. Romero ha pochissime risorse per portare a temine il film e usa bene ogni singolo dollaro, la sua bravura nel pensare inquadrature e atmosfere non si paga e in questo film ce ne fa dono senza risparmiarsi mai. Lui e il suo bravo attore protagonista sono tutto il film, fanno di Martin quasi un supereroe negativo, un folle e inquietante vendicatore della spazzatura dell’animo umano…un negativo estremo contro l’ipocrisia di un falso e grottesco buonismo, paravento e maschera per i mali di questo nostro tempo. Come già detto il film soffre di una lentezza colpevole, si fa troppo vanto della sua “povertà” e colma con l’originalità le evidentissime pochezze nella cura della fotografia e del cast. Se di horror si tratta lo è per tema e atmosfera, destabilizza e inquieta come ogni buon slasher e lascia riflettere il giusto quanto un film di denuncia. Romero aveva già demolito con i suo zombi le certezze della società americana e con questo suo film, senza magari arrivare a quegli stessi livelli, ripropone il suo pensiero…se Martin è un vampiro lo è del sangue putrefatto di umani senz’anima o, peggio ancora, ben pronti a comprarne una, con il benestare della religione e delle convenzioni ipocrite con cui si imbelletta.