La malvagità, pura e insensata malvagità. Film che guarda, dal basso, Arancia Meccanica e ne attualizza i contenuti. Che sevizia non solo gli sventurati protagonisti, ma anche lo stesso ambiente borghese e le sue artefatte regole. Due giovani si fanno accogliere con l’inganno nella casa di una tipica famiglia austriaca dell’alta borghesia. E’ la loro casa di vacanze sul lago e si preparano a passare li del tempo. Diventano prede da sacrificare alla brutalità dei due aguzzini…che con modi gentili e guanti bianchi rendono ancora più assurda e grottesca la vicenda. Non c’è spazio se non per il crescente orrore nelle gesta dei due maniaci, psicopatici e crudeli. Haneke butta via tutti i filtri morali e concede allo spettatore solo la “cortesia” di non inquadrare direttamente la violenza. La lascia immaginare e provare senza che un fotogramma si soffermi o viri verso lo splatter. Direte voi..dovrà anche esserci una spiegazione a tutto questo, dovrà esserci un motivo per tutta quella malvagità. Paul (uno dei due aguzzini) ne darà diversi, dirà di essere un drogato in cerca di denaro per comprare dosi, di essere un reietto dalla società o di aver avuto abusi da bambino…ma nulla di questo è vero, sono solo le risposte che vogliamo sentirci dare, sono spesso e solo i nomi che noi comunemente diamo al male e a quello che non vogliamo ammettere che questa nostra società “perfetta” riesce a partorire. Non contento di sconvolgerci con tanto “realismo” fa fare a Paul uno di quelle cose che raramente si vede fare in un film…lo fa rivolgere direttamente a noi, guardando in camera e imbastendo un dialogo a senso unico che a tratti ci intimorisce e imbarazza. Questo il regista vuole, scatenare una sommossa nell’anima di chi guarda, prendiamo le parti dei poveri Anna e Georg e del loro piccolo e non possiamo che partecipare empaticamente a quanto stiamo vedendo. Ovviamente la visione è sconsigliata a chi sa di non poter sopportare tanta violenza, e non è certo l’assenza di sangue a rendere tutto più accettabile…il film risulta meno “guardabile” di uno splatterone alla Fulci o di un pulp estremo, siete avvertiti. Il sottogenere del film thriller-horror in questione è conosciuto come “rape without revenge” che già da solo la dice tutta su quanto vedremo e quanto accadrà... (anche l’amato Bava ne diresse uno Cani arrabbiati del ’74, gran bel film..cercate gente, cercate) La tragicità del finale e la trovata del regista di far riavvolgere la pellicola (forse il primo esempio dell’uso di un effetto digitale sul finire dei ’90) e far rivivere allo spettatore quanto accaduto, ha il duplice compito di ricordarci che tutto quello è finzione e di smascherare il nostro rimorso nel sentirci ora sollevati da questo. Purtroppo, sembra affermare Haneke, c’è vita anche nel male che ci circonda, farne giornalmente i conti è doveroso e in un certo qual modo auspicabile. L’inconsapevolezza della spensierata felicità, nel recinto delle belle case e la cinica accettazione del voler tenere lontani dalle nostre “salve” vite il male, come se dovesse accadere sempre ad altri, è quanto di più sbagliato possa esserci. Paul, Peter o i Drughi di Alex sono l’immagine stessa del lato oscuro dell’uomo moderno, cinico, volgare e malvagio, ma mai così "umano".
martedì 31 dicembre 2013
lunedì 23 dicembre 2013
Don't look now - A Venezia...un dicembre rosso shocking (N.Roeg,1973)
Il film prediletto, quello che, per quanto amate, non vorreste addirittura condividere con nessuno, è cosa personale e diversa per ogni cinefilo, è unica quanto le sue impronte digitali, quanto l’iride. Lo può diventare per una trama che indiscutibilmente parla di noi e della nostra storia, molto più spesso invece è solo questione di atmosfera, di quanto a fondo le “pennellate” del regista sono riuscite ad arrivare..colorando quello che in noi non sappiamo neanche nominare. Per moltissimo tempo il mio “preferito” è stato Don’t look now di Nicolas Roeg, un qualcosa che andava oltre la passione per i classici dell’horror, un film che dovrebbe primeggiare nelle classifiche di ogni cosa riguardi il cinema…per l’eleganza del girato, l’uso della camera, l’interpretazione e, non da ultima, la scenografia. Drammatico è l’incipit, sequenze montate con una maestria sorprendente e cambi temporali spiazzanti almeno quanto coinvolgenti. Troviamo Laura (Julie Christie) e John (Donald Sutherland) a Venezia, dove lui è impegnato nel restauro di una chiesa. Hanno lasciato l’Inghilterra dopo la tragica morte della loro figlia minore, annegata nello stagno vicino la loro casa. Nella città lagunare incontrano due sorelle scozzesi (figure indimenticabili e degne di fama internazionale) che, grazie ai poteri medianici di una di loro, affermano di vedere il fantasma della loro piccola e di saperla felice. Questo già basterebbe alla stesura di una intera sceneggiatura, e invece la storia si intreccia con quella di un serial killer che si nasconde tra le calli della bella Venezia. Una Venezia mai così ben “utilizzata” come quinta naturale per un film, mai i suoi odori, le sue muffe e le incrostazioni dei sue antichi palazzi sono stati così ben rappresentati, è la perfetta città dove il mistero, il sogno e l’incubo riescono ad avere anche un loro effluvio, sinistro, decadente e angosciante. Venezia è teatro, strade strette che soffocano di aria umida, e palazzi e ponti come attori protagonisti di un gran film. La Christie non è più la Lara di Zivago, la sua sensualità e bellezza si scontrano con quella città e la sua interpretazione è credibile e perfettamente calata nel personaggio, tanto da dar vita con Sutherland ad una delle più discusse e famose scene di sesso in quei turbolenti anni ’70, quasi a voler rimarcare ancora una volta l’essenza stessa del film, quella lotta tra la vita e la morte, quella ricerca di un ponte e di un legame verso qualcosa che avvertiamo senza vedere, come la medium che “accompagna” Laura nel suo cammino. La donna ha dei presagi, insiste nel convincere John a lasciare Venezia, incombe un tremendo pericolo su di lui, la sua stessa vita è in gioco…e strani accadimenti, apparentemente fortuiti sembrano dare ragione alle medium. Il serial killer continua a mietere vittime e noi cominciamo a sospettare di ogni nuovo personaggio che Roeg decide di farci conoscere. Un vescovo, un direttore d’albergo…tutti sembrano poter nascondere terribili segreti, e John quando incontra sul Canal Grande sua moglie Laura, che sarebbe dovuta partire per l’Inghilterra, insieme alle due ambigue amiche veneziane e in evidente stato di alterazione, teme per la sua vita e decide di denunciare tutto allo polizia. A questo punto la trama si complica, la realtà non è più tale e tutto si sta preparando per un magnifico coup de theatre. Dopo un rallentamento del ritmo e difficili e criptiche sequenze ora tutto vorticosamente si sta per svelare. Il finale, vera gemma del film, sono dieci minuti di delirio e colpi di scena. Divertitevi a trovare quando e in quanti posti e cose il regista ha nascosto il rosso del titolo, pensatelo non come un vezzo, ma come la punteggiatura di un bel racconto. Tra le calli e i sottoporteghi di Venezia si è messa in scena la vita e la morte...
domenica 15 dicembre 2013
Operazione paura - Kill, baby...Kill! (M.Bava,1966)
Surreale, fantastico…incubi e realtà, un amalgama perfetta per un film pari solo a La maschera del demonio. Bava in gran spolvero, vero orgoglio nazionale. Fotogrammi assurti a livello di icone e marchi indelebili dell’importanza che il cineasta sanremese ha avuto nel cinema di genere. Immagini in movimento che ispireranno o, ancora più spesso, verranno dichiaratamente copiate da nomi come: Fellini, Argento Kubrick e Barton. Melissa, la bambina-spettro del film, con la sua diabolica risata sommessa, è la figura più inquietante possibile, è capace di far riaffiorare paure che non confessiamo neanche a noi stessi…è quanto e più dei demoni-bambini di famose produzioni nipponiche ed è perfetta come la sua palla, che tiene stretta a sé come tenesse in mano il nostro smarrimento. Melissa che è interpretata dal figlio (maschio) di un conoscente di Bava e che, anche per questo, ha sguardo e sorriso ambigui come una Gioconda e gli occhi fatali della Medusa. Il Dottor Eswai giunge in un paese desolato nella Germania di inizio ’900, dove numerosi morti oscure hanno bisogno di una spiegazione..e quella che in fine troverà non sarà affatto piacevole. Come un moderno Hutter si aggira tra i ruderi e gli atterriti abitanti del posto, una locanda e una sinistra villa (alla pari del castello del Conte) ci portano alle medesime atmosfere che Murnau darà al suo capolavoro…capiamo che l’ennesimo scontro tra il male e il bene sta per avere luogo. Girato in quindici giorni a Faleria (Viterbo), gotico come un horror della Hummer e sperimentale per tecnica e inquadrature, sembra nato per essere argomento per tesi di esame finale di scuola di cinema, per fotografia (virata in giallo come si era soliti fare per gli horror di inizio secolo), regia e originalità. Una recitazione di buon livello (sempre considerando l’inesistente budget a disposizione) e una storia che, nella sua semplicità, riesce a convincere, aggiungono punti al risultato finale. Altra figura che aiuterà il Dottor Eswai a cercare di darsi risposte a quel che accade è il commissario Kruger (se volete vedere anche nell’assonanza con il nome del più noto Freddy l’ennesimo “omaggio a Bava…liberi di farlo) interpretato dal bravo Piero Lulli, che insieme ad una giovanissima Erika Blanc a Fabienne Dali (la maga Ruth) e a Giovanna Galletti (la baronessa Graps), con la sua solida recitazione, compongono il cast dei pochi nomi noti al grande pubblico che nel 1966 vide Operazione paura nelle sale. Come in tanti film, thriller o horror che siano, dobbiamo riscontrare la presenza di un oggetto particolare, una scala a chiocciola (fotografata e “colorata” egregiamente da Bava), che non possiamo che mettere tra le cose che, evidentemente, più aiutano a rendere palpabile quella sensazione di vertigine e stordimento che i registi di film di genere cercano per le loro opere, da quella nel film di Siodmak alla famigerata scala di “Vertigo”…curiosità da cinefilo. Come una curiosità è trovare qui, come in tanti altri film di Bava, quel particolare tono di verde nelle luci, che il regista usava per dare suggestione alla scena…un improbabile colore che rende surreale e a tratti psichedelica la sua “fotografia”, che rende il ferro di un’armatura ancora più gelido o una semplice stanza un antro spettrale. Un film imprescindibile per appassionati del genere e non, una prova d’artista che ha nella bellezza dei suoi fotogrammi la sua forza e nella firma di un grande regista quel che la rende un “capolavoro”.
domenica 8 dicembre 2013
La morte ha fatto l'uovo (G.Questi,1968)
Di quanto originale sia l’avventura cinematografica di
Giulio Questi nel panorama dei cineasti italiani, della sua militanza (che
segnò praticamente tutto della sua filmografia) nelle brigate partigiane, dei titoli e delle bizzarre trame dei sui
pochi film…di tutto questo lascio a voi il piacere di cercare notizie e
scoprire uno dei più originali e dimenticati della storia della “settima arte”
di casa nostra. Uno di questi suo “strani” lavori è La morte ha fatto l’uovo
del 1968. Quel 1968 che fu spartiacque per una generazione e che ha farcito,
per mano del nostro regista, di tutto i suo umori la pellicola in questione.
Anticonsumismo, attacco ad una borghesia ridicola nelle sue stessi vesti e un
inno ad un, rivoluzionario per definizione, essere giovani e al dovere di
avversare e sconfiggere la generazioni dei padri e dei nonni e il loro stucchevole
conformismo. Tutto inizia in un moderno motel vicino l’autostrada, una serie di
strani avventori e stranissimi comportamenti destabilizzano chi guarda il film…poi
in una stanza un omicidio (scena colpevolmente tagliata nella versione
italiana, questa come altre, dove quel po’ di nudo sembrava dovesse sovvertire
chissà quale ordine sociale..) e conosciamo uno dei protagonisti, è Marco
(Jean-Louis Trintignant)…industriale avicolo e, per quanto ci lascia capire il
regista, uccisore di prostitute. Sua moglie (Gina Lollobrigida) è la titolare
dell’azienda, la padrona, che tratta gli operai come i suoi polli e certo meno
dei suoi macchinari, e che sopporta, anche solo per salvaguardare l'apparenza, il rapporto ben poco entusiasmante
che ha con Marco. Penserà Gabry (la bella Ewa Aulin) a movimentare la trama,
imbastirà una tresca con Marco e con un suo collaboratore, un personaggio il
suo che risplende tanto per la purezza della sua cattiveria quanto per la bellezza dell'attrice. La trama non è sempre facile da seguire e magari Questi eccede nei sottesi
pistolotti politico-sociologici, ma
paradossalmente questa deforme struttura di trama e girato riesce ad essere anche la
forza stessa del film, lo trasforma se non in un bel film almeno in un oggetto
di quelli da usare in autocelebrativi discorsi tra cinefili, di quelli dove si
cita il cinema francese a sproposito e si arriva ai massimi sistemi anche
partendo dalle inutililmente ammicanti movenze della Lollo nel film in questione. Ricatti e
inganni e falsità sono la spina dorsale del film, si intuiscono orrore e
cattiveria più che vederli, in tutto il film e di più nel finale ci sentiamo
partecipi di qualcosa che sta per accadere…qualcosa di più deve esserci e lo avvertiamo
bene, quei personaggi hanno da nascondere qualcosa e le loro maschere non
possono che celare ben più che i loro vizi borghesi. Cosi sarà…la trama
sarà sconvolta e un cattivissimo finale arriverà a sorprenderci per una
evidente e voluta crudeltà e tutto si svolgerà in un clima da resa dei conti da lotta di classe. Film
interessante, film sperimentale e complesso..che ha il suo limite nella
inesistente espressività di Trintignant, nella lentezza e poca fluidità della
trama e nella quantità di attenzione che ci richiede per essere apprezzato.
Musica e montaggio di spessore e tanto farcito di temi sociali (dal capitalismo
assassino alla pericolosità della biogenetica) da risultare ora motivo di
conversazione ora motivo di repulsione per il cinema impegnato…ad ognuno il suo.
Giulio Questi come Bunuel…affermazione non poi cosi assurda come sembra.
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