Jacques Tourneur…Il suo film più conosciuto è "Il bacio della pantera", sicuramente superiore per fattura e narrazione a quello di cui parliamo oggi. Ma un film rimane caro e lo si ricorda non soltanto per aspetti tecnici e tantomeno per l'assenza di errori o per la bravura degli interpreti…la memoria che abbiamo di un film è essenzialmente legata all'atmosfera che riesce a creare e a farci respirare durante la visione. Campione di questo è, almeno così è stato per chi scrive, il sublime Tabù di Murnau…coinvolgente come nessuna modernissima invenzione tecnica (3D, multisensoriale e altre amenità del genere) potrebbe mai arrivare a fare, quando un film raggiunge un tale risultato lo si ama per sempre. Appena un anno dopo "Il bacio della pantera" uscirà "Ho camminato con uno zombi"..esattamente nel 1943. Tourneur, quindi, gira un film con zombi e voodoo quando George Romero aveva appena 3 anni…e che ne impiegherà altri 25 prima di partorire il suo "La notte dei morti viventi". Quindi come può il caro Romero essere considerato (e per tutti è così) il progenitore dei zombi-movie?..di misteri si nutre il cinema, e spesso di superficiali critici cinematografici che li alimentano. Torniamo a noi...Di una suggestione degna dei film epici è già il breve monologo che Paul (T.Conway) recita sulla nave che porterà lui e Betsy sull'isola di San Sebastian. Descrive quei magici posti tropicali come fossero null'altro che una stupenda maschera sul volto di un moribondo. Le esatte parole sono: Qui tutto il bello muore e marcisce, persino le stelle…E questo è l'incipit perfetto per un film capace di toccare le corde dell'emozione come pochi altri, di avvolgerci con l'umidità di quelle foreste, con il mistero delle tradizioni tribali degli schiavi e persino con l'intenso dramma familiare vissuto dai protagonisti. Vi troverete a fuggire insieme alla protagonista per le antiche scale di una fortezza spagnola (una delle scene migliori del film) inseguiti da una catatonica donna in veste bianca o a soffermare lo sguardo su una polena raffigurante San Sebastiano (geniale e suggestiva trovata) nel cortile della casa..intuendone da subito tutta la macabra importanza che avrà sul finire del film. Ovviamente l'opera risente anche dello stile di recitazione che nei primi anni '40 era caratteristico dei film USA…magari troppo di maniera e innaturale, ma è una pecca che si tralascia facilmente considerando il valore del lungometraggio in questione. Notevole e ben girata è la scena dove le due donne attraversano la fittissima piantagione di canne da zucchero…dove incontreranno un guardiano con enormi occhi strabuzzati (una delle immagini che si ricordano maggiormente finita la visione del film) e giungeranno dove gli indigeni praticano le loro arti magiche e i loro balli rituali. Il film procede uscendo spesso dai canoni classici di un horror, si dilunga nel melodramma e intreccia i due generi. Questa è una sicura scelta del regista e dello sceneggiatore…questo strano ibrido tra un film drammatico e quasi romantico con le inquietanti parti dove la magia e il voodoo la fanno da protagonista, aiuta a creare una destabilizzante sensazione di smarrimento, quasi tutto fosse solo un sogno da cui non ci riesce a svegliare. Il vero e il reale vengono messi in discussione, si cercano spiegazioni e forza in idoli pagani, usandoli come difesa nei confronti della più crudele del nostri condizioni di uomini..la gelosia. Questo il sentimento, tutto umano, che diventa benzina sul fuoco di quelle vite tormentate…il vento umido e caldo dei tropici e l'incessante suono dei tamburi voodoo aizzano gli animi dei due fratelli e porteranno la vicenda ad un finale drammatico e repentino. Un film dove tutto è pensato per dimostrare una sola verità, e cioè che spesso, citando letteralmente, "..le creature di bellezza diventano sovente creature di morte". Questo non è altro che uno dei più usati e classici paradigmi dei film horror…la bellezza come dono di un qualche malvagio dio, dono non meritato e non gestibile dai soli esseri umani e dalla loro misera razionalità, creando quindi lo scenario perfetto per la magia e il soprannaturale…Film assolutamente da vedere. La trama: L'infermiera canadese Betsy accetta un incarico a San Sebastian, nelle Antille, per curare una donna bianca catatonica, Jessica Holland, che secondo i nativi e diventata uno zombi; sarà coinvolta in un drammatico intreccio sentimentale col marito di Jessica e il fratellastro e subirà fatalmente il fascino del clima di magia dell'isola…
mercoledì 31 luglio 2013
sabato 20 luglio 2013
Dark Water (H.Nakata,2002)
Per un giapponese un film horror è un film dove la tensione, il terrore vero, deve scaturire più da quanto non viene mostrato che da corpi straziati o mostri brutti e cattivissimi. E' paura strisciante, meno molto meno digeribile del "banale" ribrezzo per uno splatter di scontata fattura. Il termometro per valutare la bontà di un film horror jap sono spesso le ore, e a volte i giorni, che dovranno passare per riconciliarsi con il sonno dopo la visione. Parliamo dei famosi J-Horror, dove la fanno da padrone gli yurei (fantasmi) e tanto di quel simbolismo (uno per tutti "la pioggia") da non poter essere mai completamente compreso da noi abitanti del resto del mondo. Conoscere cultura e tradizioni di quella terra porta il godimento di un film come Dark Water a livelli considerabilmente più alti…un godimento notevole per un notevole film. Correva l'anno 1998 quando, dio lo benedica, Hideo Nakata portava le pagine del libro Ringu di K.Suzuki sul grande schermo…e dopo quello tutto l'horror divenne vecchio e stanco e tutti i mostri divennero marionette patetiche, per tutti "paura" da quel momento in poi significò un abito bianco e lunghi capelli neri. Dopo un sequel Jap (Ring 2), a cui seguirà un remake USA nel 2005, Nakata torna a percorrere quegli stessi sentieri e non ci delude…l'ansia e il respiro interrotto sono, come allora, i nostri compagni di visione per questo suo nuovo lavoro. Piove, piove incessantemente su Ikuko e sua madre. Quella pioggia sembra spingere tutti a dover trovare un riparo…e il sicuro conforto di una casa diventerà anche il peggior incubo per le due protagoniste. Come per Ringu anche in questo film è il rapporto genitori-figli ad essere il terreno ideale dove ambientare le vere "paure" di questo secolo. Traumi familiari, separazioni e controversie per l'affidamento dei figli fanno da quinta alla messa in scena di questo racconto, ne sono lo sfondo perfetto…quasi come a dire che sono le vite sprecate dagli uomini a condannare gli yaurei a non andare via, le nostre insicurezze e il nostro odio sono il pasto dei non morti…vivono delle nostre paure e sono le nostre paure. La donna si immola per la sua piccola, e una bambina (Mitsuko) è il fantasma che la spingerà a farlo. Mitsuko vive ancora quella casa dopo la sua tragica morte, si nasconde tra le muffe di quell'appartamento, nell'umidità che divora i muri, è paura liquida come l'acqua che si insinua e che travolge. La donna cercherà spiegazioni a quel che accade, darà colpe al suo ex marito, accusandolo di volerla far passare per pazza e riprendersi l'affidamento della loro figlia, ma poi si rassegnerà a quell'evidenza e tutto quel dovrà accadere…accadrà. Girato con una fotografia che usa tutte e solo le tonalità del grigio per colorare di tristezza l'esistenza della giovane donna. La camera è usata nervosamente come nervosa e isterica è la madre di Ikuko..che ha paura ma vuole risolvere e capire quel che di strano le accade. Il primo incontro di questa con la piccola Mitsuko è una delle migliori scene del film, e da quel momento in poi non ci abbandoneranno più ansia, tensione e un disagio allo stomaco pesante e vicino alla nausea. Il film è talmente ben girato che durante la visione ogni corridoio, angolo nascosto o porta chiusa ci sembreranno punti di non ritorno da non superare mai, ci scopriremo spesso a chiudere gli occhi per evitare la visione (quanti film oggi possono tanto?) di un qualcosa di innocente quanto una bambina. A riprova di come i veri mostri da temere hanno sostanza nelle nostre complesse e difficili esistenze e che l'innocenza di un bambino è lo specchio perfetto e implacabile, capace di mostrarci il nostro vero volto, orrendamente sfigurato dalla vita quotidiana, frenetica e cinica. Da vedere assolutamente, ma non prima di aver fatto un lungo respiro e con la certezza che spesso questo ci rimarrà bloccato in gola. Senza stupirsi del ritrovarsi a fissare il soffitto dopo la visione, cercando di dar forme umane alle piccole macchie del tempo o del sentirsi sinistramente osservati durante il sonno. Buona visione e…buone notti insonni. La trama: Una donna in procinto di divorziare va ad abitare con la figlioletta in un tetro condominio, da cui una bambina è sparita tempo addietro; tra soffitti che gocciolano e cartelle rosse che ricompaiono, aleggia la presenza minacciosa della piccola scomparsa…
sabato 13 luglio 2013
La leggenda dei 7 vampiri d'oro (R.W.Baker-C.Cheh, 1974)
Canto del cigno di una delle più importanti case di produzione cinematografica, la Hammer. La H.F.P. si occupò quasi esclusivamente di horror nei suoi 50anni di vita, e moltissimi titoli sono ancora oggi dei veri oggetto di culto per i cinefili del genere. Bela Lugosi, Christopher Lee e Peter Cusching divennero volti familiari e arrivarono ad essere l'archetipo dei personaggi da loro interpretati. Tra gli anni '50 e i '70 C.Lee era sinonimo di Dracula e P.Cusching di Van Helsing...e nel film di cui parleremo oggi il caro Cusching interpreterà per l'ultima volta questo suo celebre alter-ego, e lo farà bene come sempre aveva fatto. A metà degli anni '70 la Hammer rischiò l'oblio e cercò una ricetta per riportare il pubblico, non più numeroso come prima, nella sale a vedere i suoi film. Decisero di contattare una grande compagnia di produzione di Hong Kong, la Studio Shaw…specializzata in un genere che arrivava a fare proseliti anche in Europa, i Kung fu movie. Ora si trattava di far "sposare" due cose che mai si erano neanche lontanamente parlate…si trattava di creare un animale mitologico metà horror e metà "botte da orbi". Presero la più usata e amata delle figure iconiche della Hammer..Dracula, e lo fecero "emigrare" in Cina. Arruolarono un regista cinese, Chang Chen (un vero mito per gli appassionati del Kung fu sul grande schermo) ed il britannico Roy Baker (un tuttofare a poco costo) e chiesero loro di fare il miracolo. Non possiamo dire che l'operazione riuscì del tutto…il film è godibile ma oggi quasi grottesco e caricaturale, può persino suscitare una risata per alcune ingenuità, ma per chi si bea di appuntiti canini e stranezze di celluloide…non può che essere l'ennesima chicca da gustare. Ci destabilizza nei primi fotogrammi vedere un sacerdote cinese in Transilvania al cospetto del nostro amato conte e ci destabilizza tanto, ma non tanto quanto non vedere Lee nei panni del vampiro…al suo posto un incipriatissimo John Forbes-Robertson, con più rossetto di una ballerina di burlesche e meno credibilità di una banconota da 7 euro, e tutto questo prima dei titoli di testa…!! Appena ripresi da questa scioccante visione comincia a chiarirsi meglio la vicenda…Dracula ora è il felice possessore di una grande pagoda (al posto del suo amato castello) ed è circondato da sette incartapecoriti cattivoni, con maschere d'oro e spadoni. Qui vediamo tutti i limiti degli effetti usati nel film…poche cose e fatte male, ma non è questa l'opera dove ci possiamo aspettare fantastiche trovate alla Rambaldi, budget inesistenti e fretta di finire hanno pur sempre il loro peso. Cusching-Van Helsing dovrà ancora una volta dare la caccia al suo acerrimo nemico…lo aiuteranno il figlio Leyland, Vanessa Buren, ricca avventuriera che finanzia la spedizione (per la cronaca è Julie Ege, Miss Norvegia) e soprattutto un fantastico Ching (David Chiang) e i suoi sette fratelli, maestri di Kung fu…spettacolari combattimenti con quei brutti vampiri dorati, che tutto sommato non sembrano poi così invincibili. Questo strano filone definito Kung fu horror ha avuto vita breve e pochissima fortuna, a riprova della difficoltà del soggetto. Per quanto ora quei vampiri e zombi saltellanti non possano più suscitare alcuna sensazione di paura o ansia, o alcune ridicolaggini siano veramente da denuncia, una sua ragione per essere visto il film la mantiene ancora. Buona è la fotografia, che a tratti usa i colori primari netti e abbondanti per sottolineare particolari passaggi topici del film (come si usava una volta virare in giallo o blu i primi horror muti per portare lo spettatore più alle soglie del sogno che lasciarlo a un semplice BW senz'anima) e buona è la narrazione. La trama corre via senza annoiare e quelle stranezze di cui abbiamo parlato sono quanto oggi ameremo in cineasti come Tarantino, diventano icone pop senza volerlo e ci ricordano che un film è pur sempre un racconto e mai un documentario…è e deve essere quello che non succede nella realtà, quello che la nostra mente riesce a creare con la fantasia e con quel po' di inverosimile che da linfa vitale ad una pellicola. La trama: Dall'università cinese, dove il professor Van Helsing si trova per alcune conferenze sul vampirismo, parte una spedizione capeggiata dallo stesso professore per debellare lo spirito di Dracula che cent'anni prima si era incarnato in un signorotto locale. Dure lotte e spettacolari duelli prima di un finale in crescendo…
domenica 7 luglio 2013
La strega in amore (D.Damiani,1966)
Anche l'insospettabile Damiano Damiani, quello della Piovra con Placido in tv e di tantissimi film mafio-polizieschi e (ahinoi!) di Alex l'ariete.., anche lui ha ceduto al nostro genere preferito. La strega in amore (titolo peggiore era davvero impossibile) è una particolarissima variazione sul tema horror-gotico italiano del tempo. Castelli e nobili assetati di sangue lasciano il campo ad una Roma contemporanea, quasi un documentario le iniziali riprese dell'EUR (quartiere di Roma) ancora poco congestionato da traffico e gente, ai palazzi patrizi e decaduti. Uno di questi è il set del nostro film…corridoi e grandi sale, persa la loro funzione di rappresentanza, diventano antri di streghe e gelidi come catacombe. Damiani non altera i canoni classici dell'horror, misteri e paure sono le stesse e le atmosfere funeree sono degne di Corman e dei suoi film tratti da Poe. Le figure femminili sono, come spesso accadeva, la pietra d'angolo dell'intero racconto. La sensualità della Schiaffino è "educata" ma non nascosta, e sin dalle prime battute, quando Consuelo legge le "colorite" memorie di suo marito, avvertiamo l'eros come filo conduttore di quel che vedremo in seguito. Tratto da "Aura" un breve romanzo di Carlos Fuentes, il film ne immortala le atmosfere e non perde molto di quel velo ammaliante che Fuentes ha dato al suo scritto. Nel libro (che consiglio altrettanto) come nel film il gioco di Aura e di Consuelo per "braccare" il giovane Sergio ha qualcosa di esotico e lontano…un rito antico che solo una donna e il suo essere strega, come nel film, può domare ed usare per ottenere l'oggetto dei suoi desideri. L'entrata in scena di Aura (Schiaffino) disorienta Sergio, che abbassa le difese e non si cura più della stranezza di quel posto e delle due "castellane". Un perfetto BW fotografa dialoghi e attori, tenendo l'attenzione e la curiosità di chi sta guardando il film ben sveglia ed acuta. Le musiche di Bacalov sono come il cigolio perfetto della porta di un antico maniero…sono il suono preciso che deve avere uno sguardo o lo stupore di un uomo. Si intuisce esattamente la potenzialità del racconto di Fuentes, di quanto il soggetto fosse adatto ad un film…quasi difficile da comprimere in un lungometraggio. I suoi 110min non permettono a Damiani di approfondire a dovere le intense figure femminili e ne rende ancora più marginali quelle maschili. Tutto si svolge tra perenni dialoghi e ammiccanti atmosfere, dove come una volpe da cacciare si aggira il protagonista, intrigato e curioso di svelare segreti e far entrare la luce in quel luogo tetro e forse, lui crede, anche nemico. Tutto sembra costruito dalle due donne e da quella casa per quasi punire la "leggerezza" di Sergio…il suo essere poco propenso ad approfondire i rapporti, superficiale e impudente dovrà vedersela con l'eterno e l'inspiegabile. Quando l'erotica danza di Aura, su un ritmo primordiale e tribale, preludio all'amore tra i due viene interrotta dall'arrivo di Gian Maria Volontè, che interpreta Fabrizio l'ex bibliotecario, ci rendiamo conto di quanto forte ci prendano le belle e gotiche immagini in movimento di questo film…che di horror ha il sapore ed è aspro al palato, che intimidisce chi guarda e lo stordisce con quel invadente e perenne odore di muffa e polvere. Fabrizio è ormai lo scarto di un esperimento, il rifiuto ingombrante da tenere nascosto…una razza inferiore per le elette donne che vivono in quella caverna/palazzo. Volontè va oltre la parte, non riesce ad essere comprimario di nessuno, tantomeno una figura secondaria, occupa eccessivamente la scena con uno smaccato e non celato desiderio di primeggiare…troppa personalità, bravissimo ma accentratore e inopportuno. La mano della censura è arrivata anche a "mutandare" il poster del film, dove una languida Aura lasciava intravedere la sua nudità sotto il vestito (così come effettivamente avviene nel film), ne esistono quindi due diverse versioni…censura che non ha potuto però fermare l'indubbio fascino che la Schiaffino dona al suo personaggio, che sprigiona malizia con consapevolezza e naturalezza. Un film e un finale che amerete aver visto, di indubbia bellezza e buona fattura. Chi ha corde capaci di risuonare con questo genere di film ne godrà certamente, in barba ad una critica superficiale che ne ha snobbato l'esistenza, per andare a rendere onori a produzioni d'oltre oceano spesso di più bassa qualità. Un horror di confine, dove a far paura e sempre una pesante e intrigante ambiguità… La trama: Uno scrittore squattrinato accetta un lavoro propostogli da una strana vedova che vive con Aura, che dice di essere sua figlia, la donna è una strega….
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