Rose e suo fratello Mark vivono rispettivamente a New York e Roma. Un giorno Rose compra un vecchio libro da un antiquario, un libro che parla delle tre madri per cui l'architetto Varelli avrebbe costruito tre dimore: a New York, a Friburgo e a Roma. Dopo aver letto il libro, Rose si convince che negli scantinati del suo palazzo ci sia la dimora di una delle tre donne. Questa scoperta le costerà la vita. Sarà il fratello Mark a fare luce sul mistero.
Argento alla ricerca di sensazioni forti. Nulla di più lontano dallo svolgimento classico di un film. Storia che non abbisognerebbe certo di quasi due ore per essere raccontata e personaggi (e attori) che risultano ben poca cosa se paragonati alle riuscite scenografie e alla tecnica e all'intuito del Dario nazionale. Quanto la volontà nel voler colpire lo spettatore sia il vero intento di Argento lo avvertiamo in una delle migliori scene di tutto il film. Rose, nelle prime parti del girato, scende in uno scantinato, allagato completamente, per riprendere il suo prezioso portachiavi. I colori sono saturi e primari (come il maestro Bava aveva insegnato al mondo) e l'acqua diventa, nella mente di chi guarda, una melma opprimente, una delle tante rappresentazioni di quello che è il vero protagonista del film...il Male. Tra suggestioni verdiane e le tastiere "progressive" di Keith Emerson le sansazioni scorrono senza un filo veramente logico, ci si perde nella trama effimera del film come ci si perderebbe correndo senza metà in un bosco di notte. Esercizio di stile e di regia ed evidente omaggio al maestro Bava, che certamente visionò e "corresse" alcuni passaggi. Argento si crogiola nella sua tecnica e nella rappresentazione della sua bravura e delle sue paure. Ormai, dopo i successi precedenti, deve dimostrare poco o nulla al suo fedele pubblico. Ora li prende per mano facendo vedere loro il suo personale paese dei balocchi...colmo di luci innaturali e angoscia. Abbandonando, quindi, gli stereotipi che ci vincolano nel giudicare un film, tralasciando la coerenza della storia o degli stessi dialoghi...lasciando tutto questo, non possiamo non farci trasportare da tanta potenza visiva e dal fascino ipnotico di alcune trovate registiche. Errori nella costruzioni degli effetti speciali, alcuni assolutamente inguardabili, ci sono e non sono pochi. Così come quando lo splatter vuol essere "reale" l'unico risultato che ottiene è quello di sfiorare il ridicolo (vedi il coltello nella gola di Lava). Magari da tanta ostentazione di "gotico" e poi di "barocco" in tutto il film ci si aspetterebbe un finale più all'altezza (e invece è una delle scene meno riuscite, con tanto di scheletro da luna-park). Ma se è vero, come è vero, che di un film si ricorderanno, finita la visione, più le sansazioni avute che la storia stessa...allora Inferno ha il suo bel posticino in alto nelle classifiche dei film horror nostrani. Le pennellate di angoscia e bravura che il regista compone in ordine sparso rimagono indelebili nella mente dell'appassionato e lasciano tanto, tantissimo rimpianto per quello che diventerà la filmografia argentiana nei decenni a venire. I corridoi di una biblioteca o le scale di un sotterraneo diventano le viscere di un fantastico palazzo maledetto (come ci dice lo stesso Varelli nel film) che Argento cerca tra New York e Roma ma che, capiamo bene, esistere solo nella sua mente inquieta. Un luogo non luogo, dove le visioni delle sue personali paure cercano di rappresentarsi a noi con personaggi e location reali, ma non riescono mai, per loro stessa natura, a rendercele fino in fondo. Inferno è una gioia per gli occhi di chi, come il regista, ama perdersi tra quello che da sempre è il motivo stesso della settima arte: non certo il portare sul grande schermo una mera rappresentazione del reale ma il dare corpo di pellicola ai sogni e agli incubi personali. Questo è, in fondo, quello che dovremmo aspettarci da tutti i film di genere e da un horror particolarmente...questo sapeva Bava, questo aveva capito Argento e l'aver tradito questa "legge" è il motivo stesso dell'attuale pochezza delle nostre produzioni di genere.
Argento alla ricerca di sensazioni forti. Nulla di più lontano dallo svolgimento classico di un film. Storia che non abbisognerebbe certo di quasi due ore per essere raccontata e personaggi (e attori) che risultano ben poca cosa se paragonati alle riuscite scenografie e alla tecnica e all'intuito del Dario nazionale. Quanto la volontà nel voler colpire lo spettatore sia il vero intento di Argento lo avvertiamo in una delle migliori scene di tutto il film. Rose, nelle prime parti del girato, scende in uno scantinato, allagato completamente, per riprendere il suo prezioso portachiavi. I colori sono saturi e primari (come il maestro Bava aveva insegnato al mondo) e l'acqua diventa, nella mente di chi guarda, una melma opprimente, una delle tante rappresentazioni di quello che è il vero protagonista del film...il Male. Tra suggestioni verdiane e le tastiere "progressive" di Keith Emerson le sansazioni scorrono senza un filo veramente logico, ci si perde nella trama effimera del film come ci si perderebbe correndo senza metà in un bosco di notte. Esercizio di stile e di regia ed evidente omaggio al maestro Bava, che certamente visionò e "corresse" alcuni passaggi. Argento si crogiola nella sua tecnica e nella rappresentazione della sua bravura e delle sue paure. Ormai, dopo i successi precedenti, deve dimostrare poco o nulla al suo fedele pubblico. Ora li prende per mano facendo vedere loro il suo personale paese dei balocchi...colmo di luci innaturali e angoscia. Abbandonando, quindi, gli stereotipi che ci vincolano nel giudicare un film, tralasciando la coerenza della storia o degli stessi dialoghi...lasciando tutto questo, non possiamo non farci trasportare da tanta potenza visiva e dal fascino ipnotico di alcune trovate registiche. Errori nella costruzioni degli effetti speciali, alcuni assolutamente inguardabili, ci sono e non sono pochi. Così come quando lo splatter vuol essere "reale" l'unico risultato che ottiene è quello di sfiorare il ridicolo (vedi il coltello nella gola di Lava). Magari da tanta ostentazione di "gotico" e poi di "barocco" in tutto il film ci si aspetterebbe un finale più all'altezza (e invece è una delle scene meno riuscite, con tanto di scheletro da luna-park). Ma se è vero, come è vero, che di un film si ricorderanno, finita la visione, più le sansazioni avute che la storia stessa...allora Inferno ha il suo bel posticino in alto nelle classifiche dei film horror nostrani. Le pennellate di angoscia e bravura che il regista compone in ordine sparso rimagono indelebili nella mente dell'appassionato e lasciano tanto, tantissimo rimpianto per quello che diventerà la filmografia argentiana nei decenni a venire. I corridoi di una biblioteca o le scale di un sotterraneo diventano le viscere di un fantastico palazzo maledetto (come ci dice lo stesso Varelli nel film) che Argento cerca tra New York e Roma ma che, capiamo bene, esistere solo nella sua mente inquieta. Un luogo non luogo, dove le visioni delle sue personali paure cercano di rappresentarsi a noi con personaggi e location reali, ma non riescono mai, per loro stessa natura, a rendercele fino in fondo. Inferno è una gioia per gli occhi di chi, come il regista, ama perdersi tra quello che da sempre è il motivo stesso della settima arte: non certo il portare sul grande schermo una mera rappresentazione del reale ma il dare corpo di pellicola ai sogni e agli incubi personali. Questo è, in fondo, quello che dovremmo aspettarci da tutti i film di genere e da un horror particolarmente...questo sapeva Bava, questo aveva capito Argento e l'aver tradito questa "legge" è il motivo stesso dell'attuale pochezza delle nostre produzioni di genere.